sanscrito vedico

fonetica



VI - SAṂDHI: IL SAṂDHI DELLE VOCALI

111. Generalità sul saṃdhi. — Le fine di parola così definite sono soggette a modificazioni nuove quando, in una frase continua (saṃhitā), si trovano di fronte ad un’altra parola. Questo è ciò che i Pr. chiamano saṃdhi o “giunzione”. Il saṃdhi ha luogo tra i pāda dello stesso emistichio (cfr. 94), anche se una nuova frase inizia all’interno del pāda. È il contrappeso della pausa. Tuttavia la restituzione del testo primitivo permette di vedere che in origine vi era pausa al termine di ogni pāda, e che questo trattamento è stato occultato da dei saṃdhi talvolta più rigorosi anche che in altri punti (cfr. VII 33 3 a VIII 9 9 c IX 98 3 a), o la cui irregolarità tradisce un antica incertezza. Ogni inizio di pāda (dispari) conta come inizio di frase, senza che ogni fine del pāda precedente valga come finale assoluta.

  1. In generale, la libertà è stata maggiore di quanto il testo scritto lasci presagire. Si trovano variazioni da un manoscritto all’altro, da una scuola all’altra, in particolare per quanto riguarda il trattamento delle nasali e di s + consonante. La scrittura grantha ha favorito, nelle fonti del Sud, delle incorrettezze.
  2. Il legame sintattico tra due parole gioca qualche ruolo nell’applicazione del saṃdhi: negativo contrae con la vocale che segue, comparativo (enclitico!) lo fa raramente; le particelle enclitiche provocano a volte dei saṃdhi più stretti con la parola precedente di quanto non farebbe una iniziale qualsiasi, cfr. 129 130 132 n. 1 140 142 143 149 151. Invece, la giunzione può essere meno sottolineata per alcuni monosillabi (non enclitici né proclitici) o più in generale per due parole associate per effetto del caso. Ci sono aspetti di saṃdhi propri della particella iva 123.

Il taglio (o cesura) comporta qualche allentamento del saṃdhi, cfr. VI 47 27 a VII 50 3 b VII 110 1 16 c, ecc.; i casi di iato possibile sono più numerosi in questa posizione. Notiamo infine che molte “regole” di saṃdhi risultano da una normalizzazione corroborata dall’insegnamento dei Pr., ma che i manoscritti sono spesso molto liberi. Questa osservazione si applica più particolarmente a -ḥ (cioè -r o -s) finale davanti vocale; a -s davanti sibilante.

112. La posizione di saṃdhi vale per estensione:

а) per la finale di un membro anteriore di composto, salvo eccezioni, cfr. 164; b) per la finale del tema davanti a certi suffissi secondari (eccezionalmente davanti a un suffisso primario), cfr. 190 215; c) normalmente, per la finale del tema nominale davanti alle desinenze in bh- e -su, desinenze che i grammatici classici chiameranno pada o “parola”. Abbiamo visto in anticipo degli esempi di questa estensione 46 b 55 n. 2 72 n. 1 100 n. 1.

  1. Questi fenomeni sono sottolineati dall’uso dell’avagraha o “segnale grafico di separazione” nel pdp.; la parola designa anche il primo elemento così separato; le parole affette dall’avagraha si chiamano avagṛhya, i “non separabili”, aniṅgya.
  2. Ha anche un avagraha la particella iva 123, perché è considerata come membro posteriore di composto a causa di certe particolarità foniche, cfr. TPr. IV 39 VPr. V 18. Inoltre, alcuni derivati primari; le parole ripetute. Altre parole si segnalano sia per l’avagraha sia per iti (queste sono le parigṛhya). Vi sono peraltro delle divergenze tra i vari pdp.
  3. Su un fatto “interno” risultante dal saṃdhi, v. 46 n. 2.

113. La restituzione sillabica e quantitativa del RS rivela saṃdhi più forti (o meno usuali) di quelli presenti nel testo scritto; ancor più spesso, si riscontrano casi di non giunzione (asaṃdhi). Così, lo iato (vivṛtti, padavṛtti, vyūha) è un fenomeno piuttosto raro nella scrittura, ma spesso riconoscibile, in particolare alla fine dei versi dispari. Qui, più che in qualsiasi altro ambito, la redazione ha normalizzato secondo gli usi successivi. Le cose vanno regolarizzandosi dopo il RS.

  1. Sulla durata dello iato, vedi 15.
  2. Il sentimento della continuità della dizione, unito all’applicazione (inversa) delle regole descritte al 34, porta a grafie come viliptyā́ AS. XII 4 44 = viliptī́ yā́: questo avviene soprattutto alla giuntura di un composto e dopo una vocale breve. Allo stesso modo in hāryojana- = hāri-y° Kap. III 9 e passim “relativo alla bardatura dei cavalli bai”, vyòman- “firmamento” (e vyùnoti da vi-YU-), nyèmuḥ TS. da ni-YAM- (e vyāmá- AS., misura di lunghezza), paryanti paipp. ad I 1 1 da pari-I-, vyoni- (ex corr.) paipp. ad I 11 5 (cfr. syoná- 45), anvartitṛ́- (e AS. (ánvartiṣye) “che accompagna”, da ánu-VṚT- [Al contrario, ni yán AS. VI 49 3 per RS. nyàṅ]. Altre forme sono da restaurare secondo la testimonianza del metro.

114. Il saṃdhi a volte espande, a volte restringe il fonismo interno. L’influenza della forma di pausa è stata significativa. Una caratteristica notevole è la sonorizzazione delle sorde in presenza di una sonora, mentre all’interno della parola il fenomeno avviene solo davanti a una consonante. Altri tratti includono l’eliminazione di alcuni iati, l’adozione di molte -o in finale, diversi fatti di adattamento talvolta sottili, rinforzati dalla precisione delle prescrizioni teoriche. A parte l’allungamento 108, che non è propriamente un fenomeno di saṃdhi, le vocali finali rimangono invariate davanti a una consonante. Non ci sono casi certi, né probabilmente, di accorciamento davanti a consonanti doppie (è stato citato máhi per *mahī davanti a dyāvā° X 93 1).

Davanti a una vocale, bisogna distinguere vari tipi di trattamento:

115. Contrazione.— Davanti a una vocale simile, -ā̆ -ī̆ -ū̆ si contraggono (praśliṣṭa-saṃdhi) quasi sempre, almeno nel testo scritto, così ihā́sti = ihá asti. La contrazione è comune anche nel testo che può essere restituibile, tranne che per monosillabi come “come” (enclitico, 111 n. 2) ; su , vedi 139. Tuttavia -ā rimane talvolta in iato anche nel testo scritto, sia a causa di una falsa interpretazione (manisā́ agníḥ I 70 1, pdp. -ā́, in realtà -ā́[]), sia per la caduta preistorica di una consonante (quindi il N. f. -ā, scritto -ā nel pdp., potrebbe derivare da -ās, da qui l’assenza di saṃdhi). Se c’è un iato, normalmente c’è nasalizzazione (attraverso l’anunāsika), che serve proprio a evitare lo iato apparente (come l’anunāsika alla fine di pāda 95 b, che forse è all’origine di questo). Le -ī -ū rari in iato si accorciano, -ā restituito (in puruhūtá [forma duale finale] adyá VI 63 1) è breve (nel testo scritto °hūtā́dyá).

L’elisione è eccezionale: si MP. I 13 9; probabilmente náryápāṃsi I 85 9 VIII 96 19 = *nár(i)yā́pāṃsi “opere virili” (cfr. VIII 93 I); agnidh- (o agni- ’dh-) “accendifuoco” (su samídh-; il metro talvolta postula *agnīdh-, peraltro attestato in VS.); śrut’-árvan- n. proprio.

Dal punto di vista accentuale, la contrazione di un -í finale davanti a una atona produce uno svarita (chiamato praśliṣṭa), che è attestato almeno in RS. AS. e insegnato da Śākalya. Così srucı̄̀va = srucí iva; incertezza in vī́ta/vı̄̀ta X 14 9 (quest’ultimo confermato in RPr.) = ita. Lo stesso vale per -ú finale secondo TPr. Invece, un -ā́ finale si mantiene: ā́gāt = ā́ agāt.

116. Dittongazione.— C’è dittongazione di un -ā̆ davanti a ī̆- ū̆- e- o- (ai- au-), così pitéva = pitā́ iva, oppure óbhā́ = à ubhà. Questo tipo di saṃdhi è chiamato anche praśliṣṭa.

  1. Occasionalmente, un -ā̆ davanti a ī̆- ū̆- finisce in ai au a causa di un adattamento recente (del quale si trovano tracce anche all’interno 28 n. 1): turjauhī́- YV. “(animale) nel suo quarto anno”, da turya- + uhī- 259. Al contrario, si ottiene e (invece di ai) quando, nel contatto -a e-, l’iniziale appartiene alla particella evá, o ancora in kvèṣyasi MP. II 22 5 = kvá eṣyasi. In altre parole, è l’elisione di una -a finale (debole) che ha prevalso, come in urvyū̀ti- “che protegge a distanza” (più probabilmente su urv’[i]yā́ che su f. urv ī́) e molto probabile in gávyūti- 31 (che deve inoltre avere influenzato l’hapax urvyū̀ti-, come bhar’iṣá- “desideroso di bottino” è stato rifatto su gaviṣá- “desideroso di vacche”). Alcuni altri casi dubbi in RPr.
  2. Il gruppo -ā̆ finale + -ā́ (particella) + ī- iniziale produce un saṃdhi, che sembra artificiale, in -e-: índréhi “o Indra, vieni” (ci si aspetterebbe *indraihi); l’intermediario probabile è indr’éhi. Allo stesso modo dhā́tóbhé IX 97 38 (pdp. dhā́tā/ óbhé = ā́ ubhé).

Lo iato è attestato qua e là, sia nel testo scritto che nel testo restituibile, così píbā imám VIII 17 1 (pdp. píba); di solito con accorciamento, a volte con nasalizzazione.

117. Nel caso di -ā̆ finale davanti a -, l’abituale risultato è lo iato, almeno in RS. VS. MS., in accordo con RPr. VPR.; così índra ṛbhúbhiḥ III 60 5. La contrazione ar- è osservata solo in TS. (cf. TPr.) KS., parzialmente anche in AS. (e forse in composizione, fino nella RS., vale a dire in dhánarca- “che ha lo splendore della ricchezza”, se almeno si segue l’indicazione del pdp. che taglia dhána-a°; *saptarṣi- “i Sette Saggi” deve essere restituito sotto saptaṛṣí-, -aṛ- essendo come sempre da leggere metricamente -ar-). Quanto alla soluzione -ār-, essa è accreditata in VS. AS. inizialmente per la particella ā́, poi si estende da lì ad altri casi, in MS.

C’è un accorciamento di un ā finale, così in sáṛ́dhak IV 18 4 = sā́ °(insegnato in Pr.). Inversamente, c’è un allungamento di una -a in Kap; eventuale nasalizzazione in -ām̐ 250, analoga senza dubbio alla finale -ān che risulta in -ām̐ 128; un caso come svávāṃ rtā́vā III 54 12 resta ambiguo (243 n.).

Il saṃdhi accentuale (nelle categorie 116 117) si realizza conservando l’udātta o tornando a udātta da un svarita finale (kvét = kvà ít). Non c’è quindi traccia qui dello svarita ottenuto secondo il 115.

118. Consonantizzazione. — Un -ī̆ - ū̆ passa alla semivocale -y -v davanti a una vocale di un altro timbro (kṣaipra-saṃdhi). Questo passaggio è costante nel testo trasmesso, tranne per la particella u, che rimane talvolta in iato grafico, e per alcuni rari altri casi: così jánitry ajījanat X 134 1 = jánitrī a°, oppure ā́ tv étā I 5 1 = ā́ tú é°. I mantra post-ṛgvedici attestano delle grafie in -iy -uv secondo il 34, almeno alla giunzione di composti, così come tryavi- KS. “età di tre (periodi di gestazione di) pecore”. Già nella RS., suvitá- “buon passo”, fatto su duritá-, e il complesso kuvíd “è che per caso?”, fatto su k(ú)va; suvṛktí- “inno” se la parola proviene bene da ṚC-, non da VṚJ-,

Il testo restituito ignora di solito il passaggio a -y -v e mantiene -i -u, con il valore breve confermato dal metro: così gli elementi anteriori dei composti in ny° vy° si pronunciano ni(y) vi(y), tranne nei pochi casi in cui seguono una vocale breve (a causa della tendenza segnalata nel 34). Nella RS. recente e successivamente, la vocalizzazione diventa più rara. Ma, già nella RS. antica, il valore consonantico era dimostrabile per la vocale finale di un preverbo bisillabico, specialmente davanti all’aumento. In altre parole, si doveva pronunciare ánv ihi, ádhy atiṣṭhan, come si scrivevano. È un caso di proclisi. Stesso fenomeno per alcune altre bisillabe, come urú- “ampio”.

Questo tipo di saṃdhi sviluppa uno svarita (chiamato kṣaipra-svarita) sulla vocale iniziale atona, in sostituzione dell’udātta che riceveva la finale sotto la sua forma vocalica vy ā̀naṭ (= ānat).

Elisione dell’a iniziale in pariṃṣá- “bordo” (hapax di I) = pari + áṃṣa.

119. Il dittongo finale -e perde il suo secondo elemento (?) e rimane in iato, così ágna índra V 46 2 = ágne í°. Questo è l’udgrāha-saṃdhi. Il mantenimento di -ay è poco attestato tranne che davanti a un e-, in un caso rarissimo come pūtáy emi MS. I 2 1 (mss) Kap. I 13 (da interpretarsi in funzione di 140 n. 2). Tuttavia, alcune forme si spiegano, nel testo scritto, se si considera la presenza antica di tale -ay: così ṛtā́ya TS. I 4 13 1 risale a ṛtá(y) a RS. VI 7 1; inversamente, ubhé asya AS. VII 57 2 è una falsa correzione partendo da ubháyasya RS. X 13 5. Una soluzione di compromesso è agney akṣīṇi HGS. II 3 7 = agne a°.

Il dittongo -o si presenta sotto la forma -av (bhugna), specialmente nel caso (il più frequente di tutti) del V. sg., índav índrāya IX 69 10 = índo. Tuttavia, alcuni testi (MS. VSK. KS. AS.) omettono la -v finale e questo trattamento è comune laddove la vocale iniziale è ū̆-: vā́ya ukthébhiḥ I 2 2 = vā́yo. Su -o finale derivato da -as, v. 140; su sā́no, 272.

  1. In composizione, go° si mantiene, almeno graficamente, come in góopaśa- n. di un ornamento; gavíṣ- “che desidera le vacche” e analoghi è sentito come una parola semplice. L’ -o del V. sg. si mantiene per altro qui e là davanti a vocale.
  2. I Pr. conoscono una pronuncia indebolita di -v (eventualmente di -y) in questa posizione. Raramente l’-a che entra così in iato è contratto con la vocale iniziale seguente, anche se simile.
  3. Il contatto -e i- (scritto -a i-) dà -e- secondo la testimonianza del metro, in alcuni casi come *tendra, scritto ta indra VIII 40 9 e risalente a te indra.

120. Abhinihita-Saṃdhi. — C’è un caso particolare molto importante da considerare. Se la vocale iniziale è un a- breve, questo a è soggetto a scomparire nella grafia, in tal caso l’-e o -o finale rimane invariato (è rabhinihita-saṃdhi o s° “assorbito”). Tuttavia, una volta su quattro circa, l’a- rimane scritto, e là dove, seguendo l’uso successivo, cessa di esserlo, la metrica esige o raccomanda il suo ripristino. Bisogna quindi restituire, soprattutto nella RS. antica, quasi senza eccezioni, -e (o -o) a-, e, facendo questo, considerare la dittongazione finale come breve. È possibile, peraltro, che la restituzione autentica sia -a a-, cioè -ay (o: -av) a-: è quanto lascia presupporre l’esempio (unico, a dire il vero) stótava ambyàm VIII 72 5, dove una -e finale è trattato come sotto 119. Nei mantra successivi, il saṃdhi avviene con una frequenza crescente, e l’a- iniziale cade spesso in SS. AS. (soprattutto nel paipp.). Śākalya insegna che questo a- dovrebbe essere pronunciato in modo simile alla dittongazione che precede, ma che “la pratica di fatto è diversa”. Dal punto di vista accentuale, la scomparsa di un a- tonico comporta il ritiro del tono sulla finale atona, sūnavégne = sūnáve ágne 119; la scomparsa di un a- atono comporta lo svarita sulla finale tonica, dhamáḥ = adhamáḥ: è l’abhinihita-svarita.

-o mantenuto si chiama pancalapadavṛtti; il -e mantenuto, prācyapada-vṛtti (RPr.).

121. Il dittongo -ai dà -ā (in iato); raramente la semivocale è conservata (Kap.). Da qui la scorretta ricostruzione gā́ ā́ndhasaḥ SS. = gā́yā́ndhasaḥ RS. VIII 33 4. Lo iato è talvolta evitato mediante una contrazione, anche nel testo ricostruibile. Il dittongo -au si mantiene generalmente nella forma -āv. Tuttavia, davanti a un ū̆-, il secondo elemento del dittongo (come in 119) persiste solo in alcune tradizioni (TS. AS. Kap.) e scompare altrove; scompare in tutte le posizioni in MS. KS. VSK. (cf. VPr. IV 124).

Nei casi diretti del duale nominale, lo scambio -ā / -au non è una questione di saṃdhi. Neanche lo scambio -ā / -au del L. sg. Tuttavia, la distribuzione primitiva riflette condizioni foniche: per il L. sg., -ā davanti a consonante, -āv davanti a vocale (-ā davanti a ū̆-); per il duale allo stesso modo, ma con una situazione di pausa diversa, vedi 236 e 272.

122. I pragṛhya. — Alcune vocali finali sfuggono al saṃdhi: si chiamano pragṛhya o “fonemi da evidenziare” (essendo sottolineati da íti nel pdp.). Queste sono le finali lunghe (ultralunghe?) del duale nominale in -ī -ū -e; il (raro) L. sg. in -ī -ū (non senza incertezza), così come il L. in -e del pronome tvé “in te” (che induce, almeno redazionalmente, il pragṛhyatva di asmé yuṣmé); il N. pl. del pronome amī́ (incerto); la particella u (nella forma nasale ūṃ) nel pdp. (secondo Śākalya) e la stessa particella contratta in finale di átho utó e simili; il V. sg. in -o (secondo i Pr. e secondo l’insegnamento del pdp., ma non secondo l’uso testuale, se non nella TS., che legge pito ā́ V 7 2 h e simili). Il -e del duale verbale è in parte pragṛhya, ma in modo secondario (per analogia con il -e del nominale duale, che deriva da a + ī) e con abbreviazione quasi costante, parimamnā́thĕ asmā́n VII 93 6. Il carattere pragṛhya, come si vede, non è assoluto. A volte è solo la metrica a rivelarlo, così ródasīmé “questi due mondi” VII 90 3 va letto ródasī imé (allo stesso modo, più volte, un duale nominale davanti a iva). L’abbreviazione (fuori dal caso citato di -e verbale) è rara. Si parte da finali rare, dotate di una particolare pesantezza a causa della loro struttura preistorica, e il movimento si è esteso ad altre categorie.

Si può considerare che c’è pragṛhyatva in senso ampio là dove, per esempio, un N. Ac. duale in -ā (121 n.) rimane in iato davanti a vocale, con abbreviazione, come in puruhūtā́dyá (pdp. -ā́ adyá) citato in 115.

123. La natura dell’iniziale gioca un ruolo nel saṃdhi vocalico. Ciò è evidente nel trattamento dell’a- iniziale in 120. Incidentalmente, nel caso dell’enclitico iva “come”, il cui elemento iniziale è a volte assorbito da una vocale precedente, senza che ciò giustifichi l’assunzione di una forma monosillabica *va; vedi 112 n. 2 122 140 sulla debolezza dell’iniziale di iva, che porta a casi di sineresi.

Debolezza dell’iniziale di evá secondo 116 n. 1.






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