sanscrito vedico

fonetica



IV- ACCENTO

82. Notazione. - Tra i mantra notano l’accento (svara) solo quelli che sono combinati nella Saṃhitā (compresi TB. e TĀ. come estensione di TS., nonché MP.) o che sono compresi in testi in prosa accentata (ŚB., compreso BĀU.). Tuttavia, i mss. accentuano, senza coerenza, mantra che compaiono in testi trasmessi senza accento, e persino testi di rituale domestico. Il paipp. è accentato solo sporadicamente; così come il Kap. La tradizione si è indubbiamente indebolita.

La notazione è variabile e questa variazione ha influenzato erroneamente la nostra stessa interpretazione dell’accentuazione vedica. Non è molto rigorosa in alcuni testi, come AS. MP. e già in diversi Vāl. della RS.

83. a) Il sistema più consolidato è quello della RS, seguito da VS. AS. TS. e affini; il Kap. include caratteristiche del MS.-KS. successivo. Consiste nel circondare la sillaba che porta l’acuto (udātta) con due tratti, uno orizzontale sotto la sillaba precedente (“grave”, anudātta), l’altro verticale sulla sillaba successiva (svarita “enclitica”): a̱gnayé = agnáye. Logicamente, lo svarita “indipendente” (o da saṃdhi 92) si nota allo stesso modo, vīryàm = vīryàm. Gli udātta successivi all’inizio di un’emistichio rimangono senza notazione (notazione negativa), mentre gli anudātta nella stessa posizione lo sono con la linea sottoscritta : questo tratto manca, invece, negli anudātta interni (diversi da quelli che precedono, come appena visto, un udātta indipendente o svarita): così a̱gnim ī̍ḷe pu̱rohi̍tam = agnim īle puróhitam I 1 1. Non c’è separazione accentuale tra i pāda, tranne che negli emistichi.

  1. Per evitare che un’anudātta che viene dopo svarita, non essendo segnato, venga scambiato per un’udātta, mettiamo tra loro, con la notazione della doppia tonica, un numero 1 o 3 a seconda che la vocale sia breve o lunga (questo è il kampa 85), quindi a̱psv1॑ntaḥ = a̱psv àntáḥ I 23 19, oppure kve3॑dānīṃ = kvèdā́nīm I 35 7.
  2. Ci sono particolarità in VS. (M. e K.) per quanto riguarda lo svarita indipendente, VSM. in particolare nota per lo svarita e ω per l’udātta che segue. Fluttuante in AS.- Śaunaka che in genere usa un segno (o un cerchio sottoscritto ◌̥) e quindi si avvicina all’84 b.

84. b) Un altro procedimento è quello di MS. KS. (analogo, paipp. e il mss. kaśmīriano di RS.): l’udātta è annotato da una linea verticale in alto; lo svarita indipendente, in genere, da una linea in basso; tuttavia, se la sillaba seguente è tonica, MS. inscrive un numero 3 e una linea orizzontale, KS. una linea o ^. La notazione degli svarita enclitici varia. L’anudātta prima dell’udātta o dello svarita è generalmente segnato da una linea orizzontale, oppure (paipp. e KS.) da una linea verticale sottocritta. La pdp. di MS. segue l’uso ṛgvedico.

c) Nei SS. la notazione è numerica: i numeri 1 2 3 (secondo le abitudini del canto) indicano rispettivamente udātta, svarita enclitico, anudātta; 2r, lo svarita indipendente; ci sono varie altre particolarità.

d) I mantra di ŚB. (e quelli di alcuni altri Br., per inciso) seguono l’uso della prosa circostante nell’annotare l’udātta con una linea orizzontale sottoscritta (l’ultima sola di due o più udātta successive viene così indicata), mentre lo svarita indipendente (o nato dal saṃdhi) rinvia questa notazione alla sillaba precedente.

85. Natura dell’accento. - L’accento è un tono, di natura semi-musicale (alcuni Śikṣā cercheranno correlazioni tra tono e note musicali, cfr. già RPr. XIII 44). Colpisce una sillaba di ogni parola; secondo RPr. si appoggia sulla vocale ma appartiene all’intera sillaba.

Questo accento è normalmente l’udātta o tono “alto”, con “tensione” (āyāma). Le sillabe vicine vengono respinte allo stato “grave”, con rilassamento » (viśrambha), e si dice che sono anudātta “non alte”: si parla anche di “perdita di accento” (nighāta), che alcuni Śikṣā distinguono dall’anudātta concepito come tono positivo. La sillaba che precede l’udātta sembra essere la più bassa (anudāttatara). Quella che la segue è chiamata svarita per ākṣepa o “allungamento”: si tratta dello svarita “dipendente” o “enclitico”, legato alla precedenza di un udātta nel testo scritto. Ma un piccolo numero di parole presenta, al posto di un’udātta, uno svarita cosiddetto “indipendente” (nitya o jātya): come il precedente, consiste in una combinazione di un’udātta (secondo RPr. l’inizio è addirittura superiore all’udātta) e di un’anudātta (ma “percepita come un’udātta”, dicono RPr. VPr.): quindi un’intonazione discendente o ascendente/discendente.

  1. Alcuni Siksā conoscono 7 o 8 tipi di svarita, RPr. 4, condizionati da fatti di saṃdhi. Oggi lo svarita è pronunciato in un tono più alto dell’udātta e, se la sillaba è pesante, combina un udātta e un super-alto (udāttatara), il che attesterebbe un tono ascendente.
  2. Uno svarita seguito da udātta o svarita subisce una “depressione” (kampa) che equivale a un passaggio ad anudātta o anche più in basso; oggi il kampa su una sillaba pesante può avere fino a 5 toni successivi a questa linea:
  3. Gli anudātta che seguono uno svarita sono chiamati pracita “accumulati”: sono assimilati agli udātta, tranne quello che precede udātta o svarita, che rimane basso. La pronuncia odierna varia, così come l’insegnamento antico.
  4. Sui difetti inerenti alla pronuncia dell’accento, si veda RPr.: svarita non deve essere pronunciato con enfasi III 32.

86. La questione è sapere se l’udātta sia stato un tono “medio”, come si evince dall’insegnamento sopra citato a proposito dello svarita, come è confermato anche dalla recitazione moderna, e come suggerirebbe la notazione “negativa”. Oppure se poteva essere un tono alto, come postulato dalla linguistica comparata e implicito nel sistema di alternanze. È difficile stabilirlo: un cambiamento potrebbe essere avvenuto nel corso della tradizione.

In effetti, l’udātta coincide in linea di principio con il grado pieno dell’alternanza.

La sua presenza o assenza è un fatto morfologico. La collocazione dell’udātta può avere anche un valore morfologico, indicando che si tratta di un particolare tipo di composto 156 o di derivato primario 189 o di derivato secondario 219; di un particolare uso avverbiale in relazione al corrispondente uso nominale 387; di un particolare valore infinitivo (tipo bā́dhe 369 e soprattutto il tipo in -use ibid.) in relazione all’uso nominale. Infine, si riscontra una certa variazione tra maschile e femminile 232.

Oltre alle alternanze toniche con valore morfologico come ápas-/ apás- 199, ecc. (indirettamente anche, pāśu- nt.: paśú- m. “bestiame”), che non sono numerose, ci sono alcune variazioni semantiche: jyéṣṭha- “molto forte” / jyeṣṭhā- “primogenito” (anche = jyéṣṭha-, compreso in AS.); turī́ya- “quarto” / túrīya- AS. “quarto”; árdha- “lato, parte”/ ardhá- “mezzo, che forma la metà di qualcosa”; kṛ́ṣṇá- “nero”/ kṛṣṇa- n. proprio o n. tecnico; himá- “freddo”/ himā- “inverno”. Esiste una certa tendenza ad assegnare il tono radicale al valore sostanziale o all’uso nt. (opposto a m.). Senza variazioni di significato, vṛṣtí- / vṛ́ṣti- TS. “pioggia”; kṣápāvant-/ kṣā́pavant- “che protegge la terra”; abhriya-/ abhriyá- 229: antamá-/ ántama- 220 e cfr. 219.

87- Il tono assegnato a un suffisso o a una desinenza bisillabica ricade generalmente sulla prima sillaba del detto suffisso o desinenza (baritonesi). Tuttavia, ci sono molte eccezioni, soprattutto nella derivazione primaria. Gli spostamenti di tono, a partire dall’elemento alternante (che è sempre l’elemento predesinenziale), portano, nelle forme “deboli”, alla disinenza; nelle formazioni raddoppiate (verbali), invece, troviamo un altro spostamento che porta dalla sillaba raddoppiante alla disinenza.

In assenza di alternanza, il tono tende a colpire la sillaba di raddoppiamento, quando c’è; anche, nella derivazione secondaria, la sillaba iniziale se è rinforzata. Un’altra tendenza, più frequente, è quella dell’ossitonìa.

Nei temi con alternanza vocalica, l’alternanza tonica entra generalmente in gioco solo se, al grado pieno, la sillaba interessata dall’alternanza porta il tono. E ancora, almeno nei sostantivi, diversi monosillabi “alternanti” come pure i derivati in -vás- -vánt- (-mánt-) hanno il tono immobile; i derivati in -án- e -tṛ́-, e i participi in -ānt- lo hanno parzialmente. Al contrario, i sostantivi senza alternanza possono avere (conservato?) la mobilità accentuale 240.

È necessario distinguere da questa mobilità morfologica lo spostamento meccanico del tono che si osserva in alcuni ossitoni quando la vocale che dovrebbe portare il tono è consonantizzata, cfr. 239 c. Un analogo spostamento di tono si ha, per le stesse serie, prima di alcuni suffissi secondari 219 (agnimánt- AS. “che ha il fuoco”) o prima di un membro successivo 156 (puruvā́ra- opposto a purú- “ricco di doni”).

Nel verbo (310) l’alternanza tonica segue fedelmente l’alternanza vocalica; raramente manca, e più di una volta è presente laddove non compare alcuna variazione nell’aspetto vocalico. Nelle formazioni modali, la distribuzione è spesso fluida, a causa di alcune tendenze contraddittorie o incertezze morfologiche. Alcuni elementi, l’aumento sempre, il raddoppiamento spesso, attirano il tono.

88- Parole senza accenti. - Alcune parole sono o possono essere atone.

a) La maggior parte di esse sono enclitiche di parola o di frase.

Vale a dire :

a’) pronomi come 280, il tema tva- 291, caratterizzati dall’assenza di valore enfatico o deittico, dall’assenza dell’uso del soggetto (tranne che in tva- occasionalmente, e in sama- 291); hanno in parte doppiette toniche, ma sotto un aspetto diverso: così mā́m “io”, o con un significato diverso, samá- “stesso, uguale”, omonimo di sama- “ogni, qualsiasi”;

b’) alcune particelle (senza doppiette toniche), in parte di origine pronominale, situate preferibilmente o nel secondo posto del pāda o della frase, come u o gha, o dopo la parola a cui si riferiscono, come ca “e”, “o”.

La tonicità non è necessariamente un segno di forza; permette solo alle parole che ne sono dotate di apparire al primo posto (se non ci sono ostacoli), mentre le parole atone non possono aspirare a tale posizione.

b) Preverbi in proclisi, cioè che formano un insieme con un verbo tonico (o, eventualmente, con un preverbo tonico a sua volta appoggiato al verbo). Nonostante l’atonia, possono trovarsi al primo posto (il caso è comunque raro, se non con forme impersonali del verbo dove il preverbo non è altro che un prefisso attaccato).

c) Il vocativo interno, in contrapposizione al V. iniziale (cioè che compare all’inizio di un pāda o di una frase, o dopo un altro V. iniziale), che è tonico. C’è incertezza per l’epiteto (interno) di un V., a seconda che venga percepito o meno come un elemento indipendente. Un G. (interno) che dipende dal V. perde il tono: sū́no sahasaḥ (all’inizio di pāda) (oppure: sahasaḥ sūno, sūno sahasaḥ, interno di pāda) “O figlio della forza!” (ma sahasaḥ sūno all’inizio di pāda, naturalmente).

Il tono del V. è uniformemente sulla sillaba iniziale (sul V. di dív-. v. 92).

89. d) Il verbo interno (nelle forme personali) è in principio atono, in contrapposizione al verbo iniziale (di pāda o di frase, o che segue un V. iniziale). Si tratta di un’estensione dell’atonia che ha interessato inizialmente il verbo-copula. Tuttavia, solo il verbo in una frase non subordinata è privo di tono. La subordinazione implicita, la sequenza di un secondo verbo che crea antitesi, la sottolineatura da parte della particella íd (incluso kuvíd), caná (o, isolatamente, da qualsiasi altra particella insistente), portano costantemente o frequentemente alla tonicità del verbo; certi usi tonici in frasi non subordinate, o atoni in frasi subordinate, rimangono di difficile interpretazione. La tonicità del verbo si spiega con l’innalzamento di voce che segnala la fine della protasi; è stata poi generalizzata ai casi in cui il verbo non è finale di proposizione o in cui la subordinata segue la principale.

e) All’interno del pāda, anche le forme oblique del pronome à- 286 sono ugualmente atone o toniche a seconda del loro valore, cfr. 401.

f) La negazione davanti alla particella è atona anche in posizione iniziale (ma SS. ha ancora ); allo stesso modo nanú. È un caso di proclisi;

g) yathā (alla fine di pāda) con il significato di “come” (che accompagna una proposizione comparativa ridotta in generale a un sostantivo) è atono, per probabile influenza di iva; ci sono alcune incertezze.

90. VPr. insegna che “nell’atto”, cioè “durante il sacrificio”, i mantra (con poche eccezioni) sono pronunciati in “tono uniforme (monotonia)” (tāna, ekaśruti). VPr. aggiunge, tuttavia, che gli yajus possono essere pronunciati con accenti. Alcuni ammettono anche la “monotonia” nella recitazione fatta a scopo didattico. Le modifiche toniche per le sillabe con svarita saranno insegnate (Pāṇini, Kātyāyana) nella formula nota come Subrahmaṇyā.

91. Parole a doppia accentazione. - Alcune parole lunghe, soprattutto composti con disinenza mantenuta nella parte anteriore 156 (e altre ancora, in particolare nei mss. kaśmīriani di RS., nei mss. di AS. e altrove), hanno un secondo udātta separato dal primo da almeno una sillaba e forse meno chiaramente articolato del primo; ci sono fino a tre udātta in Indrā-bṛ́haspátī “Indra e Bṛhaspati”. Un caso particolare è quello degli infinitivi in -tavaí dove l’ossitono si aggiunge al tono radicale (o al tono preverbale se c’è un preverbo), tipo étavaí di I-, ápabhartavaí di (ápa-BHṚ-: il doppio tono risulta dalla vecchia forma -tave* vaí o -tave* vā́ u, contratta per aplologia. Sul caso della pluti, v. 93.

92. Parole con svarita. - Un piccolo numero di parole ha come accento non l’udātta, ma lo svarita. Infatti, lo svarita (a parte i fatti dovuti a saṃdhi) si verifica solo su una sillaba che comprende una y o una v seguita da una vocale, dove la y o la v deve essere risolta in íy (úv) secondo 34. Questo è essenzialmente il caso dei temi ossitoni in -ī- -ū-, nei suffissi secondari -ya- (dopo consonante, 229), in -tavyà- 367, nelle parole isolate kvà “dove?” e svàr “cielo” e qualche altre. Si noti il V. sg. di dív- “cielo; giorno” dove il tono dyaùs (=*diyaus) compete con dyaús: dyaús segna la tendenza ad avanzare l’udātta (come si vede qui e là nella finale -- sostituita da --), ma potrebbe esserci un’influenza del N. (come dimostra il mantenimento dell’inflessione).

Se cerchiamo di riportare i mantra alla loro forma metricamente corretta, siamo portati a concludere che svarita è un semplice processo di notazione. Ma in sostanza, e in virtù della sua origine, si tratta di un autentico accento “circonflesso”. Solo la svarita enclitica (che non è annotata) è da considerarsi una raffinatezza fonetica di nessun valore reale.

Sullo svarita nato da saṃdhi, cfr. 115 118 120. La tendenza prevalente, ma non portata avanti fino in fondo, era quella di produrre uno svarita in cui ci fosse un contatto tra udātta e anudātta, il che è in accordo con la natura stessa di questo tono (85).

93. La pluti (protrazione). - La durata di una vocale può essere prolungata fino a tre tempi (mātrā), raramente a quattro, per effetto della pluti o “protrazione”. La pluti colpisce alcune sillabe, soprattutto le finali, durante la recitazione. La RS. ha conservato solo 3 esempi nel testo scritto (al X), il VS. 7, l’AS. 15; è frequente nel Kh. e in alcuni mantra tardivi. La sfumatura meglio attestata è quella deliberativa (in frase interrogativa), adháḥ svid āsī́3d upári svid āsī3t X129 5 “era sotto, era sopra?”.

La notazione, come si può vedere, avviene tramite il numero 3 postposto; la vocale interessata si allunga se era breve, il dittongo può dividersi (quindi e > e3 o ā3i).

  1. Si noti l’interiezione rituale vaú3ṣaṭ = váṣa 100, presumibilmente da śraú(3)ṣaṭ, distorsione e mescolamento (brouillage) dell’aoristo śroṣaṭ.
  2. La sillaba protratta (plutata) tende a ricevere un tono secondario (forse uno svarita), così come una nasalizzazione: súślokā́3ṃ TS.; il doppio tono di prátyáñcā3m (mss di As. XI 3 26) sembra dovuto alla protrazione. Il samdhi viene ostacolato: hī́3 iti TS. La scuola Kaulhuma (SS.) ha una protrazione dopo uno svarita, pāhyū̀3ta I 35.






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