sanscrito vedico

Generalità e flessioni consinantiche e assimilate



CAPITOLO III

I. - GENERALITÀ E FLESSIONI CONSONANTICHE (E ASSIMILATE)

236. Generalità. Desinenze. — La flessione del nome si basa su un doppio elemento: il tema (radicale puro o radicale + suffisso), che può variare sia nel vocalismo che nel tono; le desinenze che indicano i valori dei casi (e, per sovrapposizione, il numero, parzialmente anche il genere): cioè, oltre il Vocativo, sette casi distribuiti su tre numeri. Le desinenze di base sono, al singolare: N. -s al genere animato (zero al neutro, tranne nei temi in -a- 274): tuttavia, la maggior parte dei femminili a finale vocalico hanno la desinenza zero;

Ac. -m (dopo vocale) = -am (dopo consonante) secondo 21; al neutro, come al N.; I. -ā con adattamenti particolari in certe flessioni vocaliche;

D. -e (id.); Ab. e G. -s (tranne nei temi in -a- 274) dopo vocale = -as dopo consonante (20); L. -i (raramente lungo 109) (secondariamente -ām nei femminili a finale vocalico; tracce numerose di desinenza zero).

Infine il V. si dissocia, almeno al genere animato, dal N. per diversi tratti, in particolare per l’assenza (quasi costante) di -s. Non c’è un V. distinto al plurale né (tranne tracce 267 275) al duale. Per il duale, tre desinenze si dividono la notazione dei sette (o otto) casi: i casi diretti hanno generalmente la finale -au (-ī al femminile e al neutro), tranne arrangiamenti speciali nelle flessioni in -i- e -u-.

-au si semplifica (secondo 97) in -ā davanti a consonante e alla pausa; frequentemente anche davanti a vocale (e quasi costantemente davanti a u-), dove tuttavia ci sono tracce di iato (eccezionalmente con abbreviazione di -ā a causa della stessa posizione in iato 115). In totale, nella RS., -ā appare 2391 volte / -au 293. Dopo, -au (-āv) prevale nettamente e già la RS. recente attesta numerosi casi di -au davanti a consonante e alla pausa.

I casi obliqui sono -bhyām (lettura -bh[i]yām rara) I. D. Ab.; -os G. L.

Per il plurale, i casi diretti del genere animato hanno -as; tuttavia le flessioni vocaliche differenziano l’Ac. dal N. adottando la variante -s all’Ac. femminile, -n all’Ac. maschile (dove il saṃdhi lascia emergere la traccia di un antico -s finale 128). Al neutro si ha -i nel caso di un tema consonantico (spesso, con nasale “infissa”), semplice allungamento nel caso di un tema vocalico o combinazione di queste due formule. I. -bhis, D. Ab. -bhyas (lettura -bh[i]yas frequente 34), G. -ām (molto spesso dissillabico 29 e più frequentemente rinforzato nelle flessioni vocaliche), L. -su.

La finale attesa -ās al G. Ab. sg. di diverse flessioni vocaliche cede a -ai (che normalmente è la finale corrispondente del D.) in alcuni yajus (soprattutto nel pronome asyaí), in alcune rare forme di AS. e di Kh. (p. 83 l. 1): ciò è dovuto alla confusione delle due finali nel saṃdhi vocalico. I mantra recenti attestano alcune varianti -ās / ai. Inversamente -ās si sostituisce a -ai in VS. TS., ma si tratta lì di un fatto sintattico.

237. Si noterà la frequente coesistenza di due (talvolta tre) desinenze per uno stesso caso in una stessa flessione: così, al genere animato, N. pl. -ās /-āsas dei temi in -a- (-ā-); le desinenze sono evolute di per sé stesse attraverso sovrapposizioni e adattamenti, o si sono differenziate per influenze esterne. Le flessioni vocaliche tendono fortemente a innovare, introducendo alcune distinzioni (sconosciute delle flessioni consonantiche) all’interno del genere animato, o certi prestiti (almeno nei temi in -a-) alla flessione pronominale.

  1. Ci sono tracce di finali aberranti (o di usi aberranti di finali note, come la forma nṛ́n 253); di forme non flesse, come svàr- 259; ma in generale si tratta di un effetto stilistico che permette, nel caso di due nomi contigui in accordo o apposizione, di omettere la desinenza di uno di essi 105.
  2. Negli aggettivi, la finale del N. (Ac.) sg. animato può servire qua e là per il neutro, attestando il carattere insolito, inespresso, di certi tipi di flessione neutro, cf. 243 250 259 264 e 396. Inoltre il neutro pl. (casi diretti) tende talvolta ad assimilarsi al neutro sg. 250 273 276: sopravvivenza, facilitata dai fatti di abbreviazione alla finale, di un’antica indeterminatezza del neutro pl.
  3. Esiste un elemento semisuffissale semidesinenziale -an che serve da base ai casi obliqui (sg.) in certi sostantivi neutri i cui casi diretti hanno o il radicale nudo, o estendsioni in -i o in -ar 277 sq. Questo stesso -an funziona come L. a desinenza zero dei temi in -an-. -an e -ar appaiono di tanto in tanto distaccati dalla flessione, visibili solo nelle basi di certi derivati o come membri antecedenti, cf. 1. cit. -ar si è di solito normalizzato in -as, come il saṃdhi vi prestava 133.

Alcuni suffissi invarianti hanno preso valore desinenziale all’occorrenza, -tra 389 e soprattutto -tas 391. Ma l’uso è molto limitato.

238. Alternanze vocaliche. — In una importante parte delle flessioni la vocale pre-desinenziale (radicale o di suffisso) è soggetta ad alternare. Un grado pieno (guṇa) o rinforzato (vṛddhi) si presenta così ai casi diretti del sg. e del du. nei nomi di genere animato, così come al N. pl.; ai casi diretti del pl. negli inanimati (nt.). Altrove, cioè nei casi detti “deboli”, si ha il grado ridotto, che può coincidere con una forma “piena” là dove i casi “forti” hanno adottato la forma rinforzata: ciò che conta è l’opposizione piuttosto che la struttura particolare attraverso la quale l’opposizione si manifesta. Ci sono inoltre tracce precise di un grado pieno al L. sg.

Le alternanze praticamente in vigore sono ā̆n/n (o a secondo 31 davanti a consonante, a essendo il sostituto di n vocale 21); ā̆r/r (o davanti a consonante); ā/a (o: zero secondo 20); isolatamente vā/u e au/o. [Nessuna alternanza “dissillabica”]. Solo una piccola parte delle possibilità linguistiche è stata utilizzata. La scelta tra a e ā ai casi “forti” è soggetta in principio a considerazioni di equilibrio ritmico: ā in sillaba aperta, a in sillaba chiusa. In altre parole, non esiste un grado “rinforzato” autentico, se non nell’eccezionale elemento -au- 261 sq.

  1. Quello che si chiama talvolta grado “medio” è una semplice variante fonica del grado ridotto, usata per i casi “deboli” davanti a desinenze consonantiche: sia l’aspetto a e dei tipi predetti ān/n e ār/r. Talvolta anche il L. sg. (il V. sg., i casi diretti del du. nt.) assume l’aspetto “medio” 249 252. Si è arrivati così a un grado “medio” autonomo (anche se probabilmente non originale) in solo due tipi di flessione, i participi in -vas- 246 e i nomi in -añc- 259.
  2. Il N. e l’Ac. pl. animato, appartenenti a gradi distinti, sono stati oggetto di confusione relativamente numerose in diverse flessioni: così in áp- “acqua”, dove il N. ā́pas è spesso usato per l’Ac. (apás) fin dai Libri I e X (inversamente apás Ac. usato come N. nell’AS.).

Il N. sg. animato riceve un allungamento nella maggior parte delle flessioni dove la vocale lunga non era già assicurata dall’alternanza. Il V. sg. non partecipa, salvo eccezioni, a questo allungamento. Infine, nei temi vocalici, l’alternanza è inesistente (ad eccezione di alcune parole o gruppi che si comportano come temi in consonante); la mobilità di alcune finali, pur assumendo in parte gli aspetti attesi, non coincide con la distribuzione dei “casi forti” e dei “casi deboli” (eccezione parziale per ví- 270).

Tracce di un’alternanza che riguarda l’elemento radicale, ma fuori della flessione propriamente detta, si presentano in sántya 2H, in dru° jñu° e analoghi 270; altre forme, generalmente del tipo “ridotto”, conservate in composizione 157 161 o in derivazione secondaria 217; su kanyā́(n)-, v. 250.

239. Accento. — Parallelamente all’alternanza vocalica, regolata da essa e che a sua volta la regola, esiste un’alternanza tonica, che tuttavia segue in parte le sue proprie vie: si afferma spesso dove l’alternanza vocalica manca, e manca spesso dove l’altra si presenta.

a) La maggior parte dei temi monosillabici, anche quelli che non alternano vocalicamente, fanno, nei casi deboli, passare il tono sulla desinenza, tipo vipā́m G. pl. di víp- “ispirato”. La maggioranza di questi temi sono nomi-radice.

Fanno eccezione i nomi a finale (vocalica) tematizzata o breve, che entrano nell’analogia prevedibile della massa dei temi vocalici. Eccezione anche i nomi-radice in -ā- (finale vocalica!) e -an- (con alternanze vocaliche incomplete o perdute); alcuni isolati come gó- “mucca” (I. gávā, G. pl. gónām e gávām), nṛ́- “uomo” (analogia dei nomi in -[t]ṛ ; G. pl. narā́m secondo d), śván- “cane” (analogia dei nomi in -an-).

  1. Immobilità tonica per cambiamento di categoria grammaticale, tipo bā́dhe 368; o per impiego della parola come membro finale 156. Isolatamente L. sg. kṣámi “sulla terra” (grado pieno!)
  2. Come ci sono confusioni vocaliche tra N. e Ac. pl. animato, ci sono confusione toniche, così Ac. kṣápas di kṣáp- “notte”. Nei monosillabi in -i- -ū-, l’Ac. è parossitono (tranne bhiyás YV. di bhī́- “paura”).

b) Il caso dei nomi in -añc- 259 è a parte: i casi deboli hanno il tono desinenziale (tipo pratīcás Ab. G. di pratyáñc- “girato indietro”; ma pratī́cas AS.), nonostante il “preverbo”, perché sono di una struttura diversa rispetto ai casi forti (i casi “medi” davanti a consonante sono inusuali); i pochi nomi a svarita (in -yàñc-) o in -ā́ñc- mantengono il tono pre-desinenziale: Ac. pl. nī́cas AS. di nyànc- “girato verso il basso” o arvā́cas di arvā́ñc- “girato da questa parte” (ovviamente i nomi a tono iniziale rimangono senza cambiamenti). Questa situazione complessa ha portato a confusioni, e dal Libro X il tono sull’elemento -īc -ūc- tende a prevalere, come su -āc-.

c) È anche il cambiamento di struttura che determina, negli ossitoni in -i- (anche -ī-) -u- -ṛ- -an, il passaggio del tono sulla desinenza quando la finale di base è consonantificata, sia aryás di arí- 266, pitryā́ di pitṛ́- 253 (di fronte a pitṛ́bhis, ecc. con tono mantenuto) o mahimnā́ di mahimán- “maestà” (249).

Lo stesso spostamento, ma occasionalmente, nei nomi in -ī́- -ū́- a consonantificazione risolvibile (265); la soluzione generale è l’immobilità del tono trascritto da un svarita: sia nad(í)yas N. pl. di nadī́-1. c., trascritto nadyàs. La prevalenza delle finali -yai e analoghe nella flessione “derivata” in -i- 267, dove y non è risolvibile, quella di -(i)yai e analoghe nella flessione radicale 264, dove y lo è, hanno provocato fluttuazioni accentuali; in -vai e analoghe 265, lo svarita si accredita dopo la RS.

*240. d) La stessa serie di ossitoni in *-i- -u- -ṛ- -an- (compresi i monosillabi e di solito anche i nomi “derivati” in -ī́-) attesta un trasferimento del tono sulla finale del G. pl., sia agnīnā́m di agní- “fuoco”; è un aspetto di un fenomeno più vasto, che si ritrova nella composizione e nella derivazione 87 n.

e) I participi presenti (e nomi assimilabili, come mahā́nt- “grande”) ossitoni trasferiscono il tono alle desinenze deboli, ma solo a quelle che iniziano con una vocale, sia tudatā́ (I. sg.) accanto a tudádbhis, di tudánt- (TUD-). Di altra origine, l’alternanza qui risulta quindi essere simile a quella dei nomi sotto c.

f) Per il trasferimento per cambiamento di classe linguistica, cf. (oltre al caso di bā́dhe già citato) quello degli infinitivi in -áse 368; quello degli avverbi in -ā́ 387. g) Per il V. (sg.), v. 88; per alcuni nomi di numero, 294 sq.; per i pronomi, 279 e passim.

241. Saṃdhi. — Il trattamento alla giuntura tra radicale e desinenza è naturalmente il trattamento interno; tuttavia un trattamento di saṃdhi ha luogo davanti alle desinenze in bh- e -su, che originariamente dovevano essere elementi semi-autonomi. Si ha così, costantemente, -obhis e analoghi 137 per i nomi in -as- (eventualmente -aḥsu; anche -irbhis -urbhis). Nei nomi a finale palatale (incluso -h), il trattamento -gbhis o -ḍbhis (e analoghi), che non è necessariamente un trattamento di saṃdhi, si conforma a quello del N. sg. 99, il quale rappresenta una “fine di parola”. L’applicazione delle regole di contrazione vocalica o di adattamento fonico tra due vocali è spesso evitata, sia adottando una desinenza senza vocale (-s o -m), sia mediante l’inserimento di consonanti: -n-, talvolta -y-.

La natura della documentazione vedica fa sì che molti nomi abbiano una flessione incompleta; ciò non implica che siano per natura difettivi. Tuttavia, ci sono preferenze casuali che possono aver provocato l’assenza di altri elementi della flessione: un esempio tipico è pṛ́t- “combattimento”, che è noto solo al L. pl. In generale, la distribuzione delle desinenze è molto variabile da un tipo all’altro, talvolta da un nome all’altro. Intervengono supplenze, in particolare nella flessione (incompleta) in -r / -n 277.

242. Temi consonantici (e assimilati). Generalità. — Solo i temi terminati da una consonante hanno conservato con più o meno purezza le alternanze e la struttura originaria delle desinenze. Praticamente, si distingueranno: a) la massa dei nomi senza suffisso caratteristico, tra i quali dominano i nomi radice (monosillabi in principio), che sono talvolta alternanti, talvolta no; b) alcuni gruppi particolari di formazioni a suffisso (generalmente primario): alcuni sono non alternanti, vale a dire i nomi a suffisso -as- o occlusiva + as-, accessoriamente a suffisso -is- -us-; i nomi terminati in -ín-. Gli altri sono alternanti, vale a dire i nomi a suffisso (o finale) -tr- (-tṛ-), i nomi terminati in -ant-, i comparativi in -yas-, i participi in -vas-. Ai temi consonantici si aggiungeranno naturalmente i monosillabi terminati da una vocale lunga o dittongo, che sono attratti nell’orbita dei nomi radice; poi un gruppo ristretto di non monosillabi in -ī̆- e -ū̆- che sono trattati come se finissero per -y- e -v. Tuttavia queste serie, così come i nomi in -tr-, adottano più o meno nettamente tratti flessionali propri dei temi vocalici.

243. Tema con suffisso -as- (200). — Questi non hanno alternanza, ma solo un allungamento della vocale suffissale: a) nei casi diretti del neutro pl., con inoltre l’inserimento di nasale davanti alla sibilante: sia -āṃsi ( 66): influenza delle finali analoghe -ānti 247 -āni 250 e più direttamente forse di -yāṃsi 245; b) nel N. sg. animato (quindi: alla fine di bahuvrīhi), es. sumánās “benevolo”. Da genere animato, questa finale -ās è passata ai rari N. sg. neutri, gūrtávacās (bráhma) “della tenerezza degna di lode”.

Le peculiarità foniche sono poche: saṃdhi esterno in -o- davanti alle desinenze in bh- 137, es. ápobhis di apas- “opera”; si attende parallelamente -aḥ 145 davanti a -su, ma la soluzione (almeno editoriale) è stata -assu.

Anomalie: riduzione di -assu in -asu 74; trattamento -ad-bhis e analoghi in uṣádbhis (I) di uṣás- “aurora”, cf. 72; in svátavadbhyas VS. KS. di svátavas- “forte, potente in modo innato”, il passaggio va di pari passo con quello del N. sg. svátavān (allo stesso modo, svávān di svávas- “che aiuta bene”; svávā VS.). Sul V. sg. pracetā, v. 137.

Il tema uṣás- “aurora”, uno dei rari nomi animati (f.) della serie e di origine non verbale, allunga la a suffissale nei casi forti, per analogia delle flessioni alternanti: così Ac. sg. uṣā́sam, N. V. du. uṣā́sā, N. pl. uṣā́sas, il pdp. ripristina sempre la vocale breve, la quale è attestata concorrentemente con una produttività tripla. Le due formule sono distribuite secondo le convenienze metriche, -ās- essendo apparentemente più arcaico, e costante in ogni caso nei dvandva in uṣā́sā ° °uṣā́sā; ripristino della lunga 43.

  1. Tośā́sā (N. du.) “che tormenta” (?), in realtà di lettura incerta.
  2. Tracce di un grado ridotto del suffisso nell’I. sg. bhīṣā́ = bhiyásā “paura” e forse nei casi deboli (G. sg. e Ac. pl.) uṣás spiegabili da *uṣ-s-as, di uṣás- “aurora”; cf. 20 n. 2.
  3. La flessione è soggetta a scivolare verso altri tipi: a) verso -a- per ampliamento o perdita di -s- 228 (i N. pl. come ánāgās “senza peccato” possono essere spiegati dall’analogia dei doppietti -ās / -āsas della flessione in -a-); b) verso i (pseudo-) nomi radice 196; c) verso -ar in ánar 72 [uṣar- 253]; d) nei femminili, verso i temi in ā, Ac. uṣā́m e uṣā́s da una base uṣā́- concorrente a uṣás-; apsarā́m e altri AS. rispetto a apsarás- nome proprio; jarā́m rispetto a jarás- (f.?) “vecchiaia”. Il fatto avviene soprattutto a partire dai mantra recenti della RS.
  4. In uṣánas- nome proprio (m.), la forma originale potrebbe essere stata sia in (da cui Ac. uṣánām e altri), sia in -an- (da cui N. sg. uṣánā). La base in -as- sembra essere posteriore ai mantra.

244. Temi con suffissi -is- -us- (202). — La flessione corrisponde alla precedente, con le finali (risultanti dal saṃdhi) in -ir -ur davanti alle desinenze in bh-, es. havírbhis di havís- “oblazione”; -iṣṣu al L. pl. havíṣṣu 63 146. Se il N. sg. animato non comporta allungamento (analogia dei nomi in -i- -u-), d’altra parte i casi diretti del neutro pl. sono, sull’esempio di -āṃsi 243, in -īṃṣi e -ūṃṣi ( secondo 66, secondo 63). Dubbia l’interpretazione di janū́s VII 58 2 come N. sg. di janús- “nascita” (neutro!); su avyathī́s, v. 383.

Il frequente scambio delle finali -is-/ -i- e -us-/ -u- 202 sq. ha portato a scivolamenti da una flessione all’altra: così si ha isolatamente il L. ā́yuni di ā́yu- “vita” di fronte al frequente ā́yus-, stesso senso (e cf. viśvā́yu- “riguardante tutta la vita”, in fine di composto, 163 n. 2); o cákṣos (X) “occhio” di fronte a cákṣus- (cf. sahasracakṣo [V.] AS. “dai mille occhi”).

  1. Ma una forma di N. sg. animato(?) vidús I 7110 = VII 18 2 “che sa” rappresenta la degradazione della flessione -vas- 246.
  2. Scivolamento di -us- in -uṣa- 228.

245. Comparativi in -yas- (213; f. -yasī- 235). — C’è (contrariamente alla generalità dei nomi in -as-) un’alternanza ān/a, che porta ai casi forti in -yāṃs- ( secondo 66), ai casi deboli in -yas-. Quindi da una parte il N. sg. m. -yān (n secondo 103) accanto all’Ac. -yāṃsam, i casi diretti del neutro pl. -yāṃsi. Dall’altra parte i casi obliqui del sg., I. -yasā, ecc., i casi diretti del neutro sg. -yas; i casi obliqui del duale e del plurale sono inattestati. Il V. sg. (raro) è -yas, ciò che conferma l’inautenticità della nasale in questa flessione; in altre parole, l’alternanza antica doveva essere -yās- / -yas- o più lontanamente -yas- / -iṣ-, -iṣ- essendo conservato nel superlativo in -iṣṭha- 213. La nasale si sarà accreditata secondo i tipi -antam -ānam, ecc., quella di – yāṃsi secondo tutta la serie analoga dei neutri pl.

246. Participi in -vás- (336; f. -úṣī- 235). — L’alternanza è più complessa: -vā́ṃs- al grado forte (come -yāṃs- sopra), -úṣ- al grado debole davanti a desinenze vocaliche. Quindi un’alternanza del tipo -vā- / -u-, con nasalizzazione secondaria, nata come precedentemente dai tipi vicini in -antam -ānam, ecc.: anche qui il V. sg. preserva la finale pura in -vas, ma si introduce a partire da AS. (un solo esempio) una finale -van, creata imitando il V. dei nomi in -van- e -vant-: cikitvan AS. di CIT- è una var. di RS. cikitvas.

  1. Il N. sg. (m.), che è in -vā́n (n secondo 103 come -yān precedentemente), perde la nasale in alcune rare forme nate da un’errata interpretazione o influenzate dai N. in -vā dei nomi in -van- (dadhavā́ VS. dovrebbe essere un fatto di saṃdhi, estensione di 128 n. 2).
  2. Confusione nell’alternanza, Ac. sg. cakrúṣam (X) di KṚ- (unica forma sicura di questo tipo); N. vidús 244. Nella flessione, Ac. pl. vidvánas AS.

L’innovazione importante è la costituzione di un gruppo di casi “medi” in -vát-, di origine forse secondaria, derivati dalla flessione in -vant-. Sono attestati solo due esempi dell’Ac. nt. in -vát (tatanvát di TAN-, °vavṛtvát di VṚT-, nella RS. antica) così come l’I. pl. jāgṛvádbhis (137), in tre passaggi della RS.

247. Temi in -ant- (f. -antī- e -atī- 235). — Occorre distinguere, in base alle modalità dell’alternanza: a) l’aggettivo mahā́nt- “grande” (che deriva da un allargamento a partire dal nome-radice máh-, secondo il participio bṛhánt- di senso analogo): alterna una forma forte in -ānt- (N. sg. m. mahān) e una forma debole in -at- (casi diretti del neutro sg. mahát, I. pl. mahádbhis con d secondo 124). L’elemento ā deriva dalla base mahā° che funzionava, o come membro anteriore di composto 158, o isolatamente nell’Ac. m. mahā́m e forse nel śloka mahā́ bhūtvā́ SB. VII 5 1 21 (= mahā́n K.). b) gli aggettivi a suffisso -vant- e -mant- 223 (ai quali si associano, per analogia semantica, i derivati pronominali íyant- kíyant-293) alternano -ant- / -at-. Il N. s G. (m.) è allungato (-vān -mān), per analogia del N. dei nomi in -van- -man-; stesso allungamento ai casi diretti del pl. neutro, secondo la generalità delle forme affini nelle flessioni vicine. Queste finali del pl. neutro sono attestate solo tre volte nella RS. (antica), es. ghṛtávānti “forniti di burro liquido”; il pdp. ripristina -(v)anti, ed è questa finale, normalizzata, che appare dopo la RS., così in SS. in variante di RS. -ānti.

Rilevante anche è il V. sg., frequente, in -vas -mas, proprio soprattutto delle porzioni antiche della RS. Deriva dal V. dei participi in -vas-. Il V. normalizzato in -van (127) inizia con tre forme della RS., e si propaga in AS. e successivamente; il V. corrispondente in -man è assente; ci sono alcune varianti tra -vas e -van.

  1. Al L. sg., che in altre flessioni adotta a volte una base di alternanza autonoma, si ha la forma unica kíyāti (pdp. -ati), la cui interpretazione non è molto sicura.
  2. Alcune finali in -vant- penetrano in antiche flessioni in -van-, così da maghávan- 249 si hanno diverse finali -vadbhis -vadbhyas -vatsu; l’hapax maghávān del N. sg. potrebbe essere spiegato da un fatto di saṃdhi 117 n.
  3. Scivolamento verso la flessione in -vas-: N. pl. bhaktivā́ṃsas AS. “avendo parte a”, come var. di °vā́nas MS. KS. e di (bhakṣi)vā́ṇas TB., la finale attesa essendo -vantas.

248. c) La maggior parte dei participi presenti (in -ant- 309) segue l’alternanza -ant- / -at- (allo stesso modo, -ānt- / - at- nei rari participi derivati da radici in -ā- finale, il G. pl. sthātā́m di STHĀ- è secondario per *sthātr-ām). Si distinguono dagli aggettivi in -vant- -mant- per il fatto che conservano il N. sg. (m.) non allungato, ovvero bhávan di BHŪ- (dove -an- va letto come -ants 127). Come nella serie precedente, c’è una finale -ānti nei casi diretti del pl. neutro, attestata in sánti di AS-1 (pdp. sánti); AS. normalizza in -anti. Nel duale neutro, l’aspetto suffissale è, come si conviene, in -at- (due sole forme sono attestate, yatī́ di I- e bṛhatī́- di BṚH-).

  1. A questi participi è assimilato, secondariamente senza dubbio, il termine dánt- “dente”, Ac. sg. dàntam I; pl. dadbhis (tono secondo 239 a); davanti a suffisso: datvánt- 161.
  2. Raro scivolamento tematico, cf. 228 (dove il problematico tema pā́nta- supplisce una forma nt. *pā́t, che sarebbe di un tipo insolito nei casi diretti). Ubhayā́dam AS. “a doppia fila di denti”, probabilmente errata.

d) Un piccolo gruppo di participi presenti — ovvero quelli formati su tema atematico raddoppiato 318, inclusi intensivi — segue una flessione non alternante, tipo dádat- di DĀ-, N. sg. m. e nt. dádat, Ac. dádatam. Questa particolarità va di pari passo con la finale -ati (-atu) della 3a pl. del sistema del presente. A questa serie si aggiungono il sostantivo jàgat- (nt.) “mondo”, antico participio di GAM-, così come jígāt, N. sg. m. di GĀ-; inoltre, per ragioni poco chiare (semplice scivolamento di alternanza?), l’aoristo dhákṣat- (dákṣat-) di DAH-, i presenti śā́sat- e dā́śat- di ŚĀS- e DĀŚ (e alcuni altri), quindi forme atematiche a finale sibilante.

  1. Inversamente vavṛdhántas N. pl. di VṚDH-: ma ciò si spiega partendo da forme personali tematiche.
  2. Il gruppo dei sostantivi con estensione -át- o suffisso -vát- è anch’esso non alternante, v. 195 221.

249. Temi in -an- (207 e passim). — La serie è composita e instabile. Salvo casi relativamente rari dove, alla fine di un composto, la forma maschile serve per esprimere il femminile (235 n. 1), il femminile è sempre in -ī- (-- -anī-, eventualmente -arī-) e quindi estraneo a questa flessione. Rimangono nomi di diversa provenienza, maschili e neutri, tra i quali spiccano le serie massive con suffisso -man- e -van- che presentano alcune peculiarità morfologiche.

L’alternanza avviene tra un tema forte in -ān- (raramente -an-) e un tema debole in -n- o -a- (31): Ac. sg. rā́jānam I. sg. rā́jñā pl. rā́jabhis di rā́jan- “re”. Esiste una posizione di un grado “medio”, da una parte nel V. sg., che è in -an; dall’altra parte nel L. sg., che è in -an(i) tranne śatadā́vni “che dona cento” (dove il metro invita a leggere °dāvani); a partire da AS., la normalizzazione inizia con áhni L. di áhan- “giorno” e alcune finali in -mni. Stesso grado, infine, nei casi diretti del duale neutro in -anī (nā́mnī “nome” in AS. va letto nā́manī). Nei casi deboli davanti a vocale, la soluzione -an- per -n- si è affermata per convenienza fonica 35, ma con disposizioni particolari: si ha l’aspetto an- nei derivati in -man- -van- dove l’elemento -m- -v- è preceduto da una consonante, tipo D. yájvane “che sacrifica” o I. hánmanā “colpo”; o meno frequentemente (ma meno spesso dell’aspetto -n-) dopo vocale lunga, tipo I. bhūmánā “abbondanza” (bhūmnā́ VS.); eccezionalmente dopo vocale breve, D. vasuváne VS. “che guadagna ricchezza”; dopo la RS., la soluzione -mn- -vn- prevale dopo vocale. Al contrario, due consonanti davanti al suffisso o pseudo-suffisso -an- non inducono la forma debole in -an-, tranne in ukṣáṇas (Ac. pl.), rifatto sul sg. ukṣáṇam (qui sotto) di ukṣán- “toro”. La soluzione abituale è śīrṣṇā́ 35.

  1. È vero che alcune parole in -an-, anche dopo una singola consonante, autorizzano una restituzione in -an- nei casi deboli: così D. rājñé VII 83 8 va letto come *rājane; allo stesso modo I. rā́j(a)ñā X 97 e diversi casi di finale -man- -van- dopo vocale lunga 35 fine.
  2. Alcune parole hanno un tema forte in -an- (invece di -ān-): ad esempio, i nomi propri aryamán- pūṣán- ṛbhukṣán-, il femminile yóṣan- “donna”; in ukṣán- e vṛ́ṣan- (stesso significato) c’è incertezza. Si tratta quindi in maggioranza di finali in -ṣan-, ma diverse altre parole, scritte -ān-, sono probabilmente da leggere in -an- (sulla base pronominale tmán, v. 282). In ogni caso la grafia -ān- si generalizza dopo la RS. (vṛ́ṣāṇau duale AS. e paipp., confermato dal metro).

Il termine śván- “cane” presenta un’alternanza a triplo aspetto, śvā́n- / śvá- (davanti a consonante) / śún- (davanti a vocale: tono radicale nonostante 239 a), il N. sg. essendo svā́ o ś(u)vā́. In modo analogo, yúvan- “giovane” ha i casi deboli in yúva- o yū́n- (tono radicale I) secondo la natura del fonema che segue (es. N. du. m. yū́nā, dove ci si aspetta in realtà *yuvānā); il f. yuvatí- (i breve secondo la finale in --) ‘giovane donna’ è legato a un doppione *yuvant- attestato dal nt. sg. yúvat (I e X), che sottolinea la tendenza a evitare il -va finale. Infine, maghávan- “liberale” è maghón- (talvolta trisillabico) nei casi deboli davanti a una vocale, cioè *magha-un-, mentre davanti a una consonante la lingua usa il doppione in -vant- 247 n. 2.

250. Ci sono numerosi slittamenti di alternanza, consistenti principalmente nell’estendere ai casi deboli il tema forte; o viceversa, come nel caso già citato di yū́nā o ancora nel N. pl. maghónas (incerto). Più spesso che in altre flessioni, i casi diretti del neutro, in epiteti, sono talvolta sostituiti dal maschile (397).

Al singolare, il N. m. è sempre in (caduta della nasale 97); i casi diretti neutri sono in -a. che talvolta si allunga metricamente, specialmente nelle finali in consonante + ma o vocale lunga + ma, vyomā̆ “firmamento”.

Il mantenimento della nasale è apparente, in alcune forme soggette a modificazioni analogiche dovute al saṃdhi (víbhvām ṛ- per vibhvā 117 n.), oltre a prāṇadávān (da leggere °dāvan- .) AS. “che dà il respiro”: su pseudo-N. in -ani, v. 372.

L’I. sg. di alcune parole in -man- (dopo consonante) è -mā invece di -mnā- (semplificazione secondo 68), tipo drāghmā́ I. c.; soluzione inversa in mahinā́ ibid. (accanto a mahimnā́, regolare ma raro), da cui, per analogia semantica, bhūnā́ (bhūmnā́ VS. e paipp. XVI 70 1) di bhūmán- “abbondanza”, prathinā́ di prathimán- “estensione”; infine in preṇā́ di premán- “amore”. Incerto se l’I. mahnā́ implichi un *mahmán- “grandezza”.

Ab. G. in -as, rā́jñas.

Al L., la RS. conosce una finale -an (senza desinenza) in concorrenza a -ani; -an è inizialmente notevolmente più frequente (203 volte contro 127 nella RS.), poi diminuisce gradualmente; la distribuzione è ispirata da comodità metriche, formule fisse; le parole lunghe preferiscono -ani. Gli stessi temi portano spesso entrambe le finali.

V. in -an, tranne che, per analogia dei nomi in -vant-, alcuni derivati in -van- adottano la finale in -as, come ṛtāvas “fedele all’Ordine” (e anche mātariśvas (X) nome proprio, dove il -v- non fa parte del suffisso). I casi diretti del plurale neutro sono di solito in -āni, come è normale. Ma esiste anche una finale in variante autentica (anche se di solito il pdp. restituisce -a); infine -a come abbreviazione di o mantenimento della finale del neutro sg.; in ogni caso, -a si è consolidato per ragioni metriche. Nella RS. recente, e -a diminuiscono e scompaiono rapidamente a favore di - āni.

  1. Scivolamento di -an- verso -ana- e -a- 228 (soprattutto in fine di composto 163); verso ā (nelle rare forme femminili) in yóṣā- (e yóṣaṇā-) che raddoppia yóṣan-; allo stesso modo, accanto a kanyā́- “giovane donna”, deve essere esistita una base °kanyān-, il cui grado debole *kanīn- sopravvive in G. pl. kanī́nām (l’Ac. kanyánām è probabilmente anche per *kanyán-am).
  2. Scambio tra -vant- e -van- cf. 247 n. 2; il participio árvant- (“che corre”), perché contiene l’elemento -v-, lascia penetrare alcune forme derivanti dai derivati in -vant-: N. sg. árvān, altre derivanti dai derivati in -van-, N. sg. árvā.
  3. La flessione in -an- (-man- -van esclusi) fa volentieri parte di un sistema ibrido in -an- / -i o -an- / -ar 277 sq.
  4. Estensioni eccezionali sono l’I. sg. varimátā di fronte a varimán- “estensione” (anche Ab. várimatas AS.?), e (sotto forma tematica) śrómata- nt. “gloria” partendo da un *śroman-.

251. Temi in -*in*- (225; f. -*ínī*- 235). — Flessione senza alternanza e molto regolare. La particolarità più notevole è la formazione dei casi “deboli” davanti a consonante in -í-bhis, ecc. e -í-ṣu, che si ispira alle finali -abhis e -asu dei nomi in -an. A causa della stessa analogia, il N. sg. m. è in -ī́ (allungamento e perdita della nasale), il neutro è (come i neutri in -a); il V. conserva la nasale (- in).

  1. Scivolamento tematico (-ina- secondo 228) in mahína- “grande” e alcuni altri (a favore dell’Ac. sg. ambiguo in -inam); scambio con -i- probabile o certo in diverse forme, cf. mandím / mandíne 19 2 “gioioso”.
  2. Non c’è una flessione in -un- (madhún° 216 n. 2 è artificiale), ma i casi in -un- della flessione in -u- lasciano supporre un doppio teorico -un- parallelo al doppio -in- della flessione in -i-.

252. Temi in -tṛ- (210; f. a volte epiceno, ma generalmente -trī- 235). — Qui, in modo analogo alla flessione in -an-, ci sono due varietà di alternanza. Comune ad entrambe è l’aspetto r (davanti a vocale) e (davanti a consonante) nei casi “deboli”. I casi “forti” hanno talvolta -ār- (vṛddhi), talvolta -ar- (grado pieno). Il N. sg. è ovunque in 97, come quello dei nomi in -an-; allo stesso modo il V. sg. (-ar) e il L. (-ari) rappresentano un grado “medio” autonomo; nel duale la finale -ros è sempre dissillabica 38. Infine l’Ab. G. sg. utilizza la finale corta -s con la quale l’elemento si combina in -uḥ 96.

Ma la novità principale di questa flessione è il fatto che diverse finali si ispirano a quelle delle flessioni vocaliche; sull’imitazione dei tipi -īn -īs -īnām e simili, si ha così l’Ac. pl. -ṝn al maschile, -ṝs nella singola forma femminile attestata (mātṝ́s “madre”), il G. pl. in -ṝ́ṇām (-ṛṇām, cf. 2).

La prima formazione comprende i nomi di agente con suffisso -tṛ- (indipendentemente dal modo di accento 210): es., da dātṛ́- “chi dà”, N. dātā́ Ac. dātā́ram D. dātré (tono 239 c) Ab. G. dātúḥ Ac. pl. dātṝ́n G. dātṝnā́m (tono 240 d) I. dātṛ́bhis.

  1. A questi nomi di agente si associa una parola isolata: stṛ- “stella”, con il N. pl. tā́ras 70 I. stṛ́bhis.
  2. Forme aberranti: N. nt. páktā TS. VII 5 20 (estensione della finale del maschile, dovuta all’estrema rarità del neutro in tutta questa serie); il N. Ac. nt. normalizzato in -tṛ manca nei mantra; la finale fonetica sopravvive solo in sthātúḥ “immobile” cf. 96. Incerte le finali in - tári (-tárī, pdp. -tári) dove si è creduto vedere sia L. sg., sia N. sg. m. o nt., cf. 372. — L. nánāndari (X) “sorella del marito” come trisillabo.
  3. Scivolamento verso altre flessioni: yantúra(m) 228.

253. La seconda formazione si riassume in alcuni nomi di parentela, in parte molto comuni, terminati in -tṛ- e generalmente in -tṛ́-: es. pitṛ́- “padre”, f. mātṛ́- “madre” (Ac. pl. mātṝ́s citato in precedenza; ma, come epiteto del maschile síndhūn, si ha mātṝ́n (X) con la desinenza del maschile “i fiumi materni”).

I casi distintivi sono Ac. sg. pitàram N. pl. pitáras, casi diretti del duale pitárā. Si deve distinguere da questa serie la parola femminile svásṛ- (finale in -ṛ-!) “sorella”, che segue l’alternanza secondo il 252, N. pl. svásāras; allo stesso modo la parte della flessione di nápāt- “nipote, nipote maschio”, che è scivolata verso la base náptṛ- nei casi obliqui, poi, dopo la RS., in un caso forte (náptāram TS. KS.) (su nadbhyás, v. 68). Si deve invece aggiungere il monosillabo nṛ́- “uomo”, con l’Ac. sg. náram e gli altri casi forti; ma la flessione ha conservato le finali “radicali” nei casi deboli, così G. sg. náras G. pl. narā́m (tono secondo 240 d; accanto a nṛṇā́m, dove comunque l’elemento è scritto breve); il D. náre sostituisce l’impronunciabile *nre.

  1. La parola non è priva di anomalie: su nárā° come membro anteriore, v. 173; sulla forma nṝ́n, v. 105.
  2. Isolatamente, seguendo narā́m, si ha il G. pl. svásrām (I); seguendo l’intero dei nomi in -tṛ-, il G. vāvā́tuḥ si costruisce parlando del tema vāvā́ta- “amante”. Sull’allungamento in °pitāras, v. 162.
  3. A parte, il L. usrí di un tema difettivo uṣár- “aurora”, var. di uṣás-; un altro L. è usrā́m, con una desinenza “femminile” che si ritrova nel G. usrā́s raddoppiando usrás; infine V. uṣar 63 e membro anteriore uṣar°173. — Per altri nomi in -(a)r, v. 259 277 294.

254. Nomi-radice (e assimilati; 193; f. 235), A. Nomi con finale consonantico. — Il resto dei nomi con finale consonantico, tra i quali la massa dei nomi-radice (e generalmente dei monosillabi), poi gruppi minori con suffisso o nomi (dissillabi) inanalizzabili, possiedono un modo di flessione uniforme, che consiste nell’applicazione non modificata del paradigma desinenziale di base. Le alternanze vocaliche sono attestate in una minoranza di casi. La categoria, che si definisce così negativamente rispetto alle altre flessioni, comprende numerosi usi isolati, “difettivi”, arcaici (cf. 196). La tendenza all’ampliamento (in -a­ generalmente; talvolta in -ā- nei nomi di azione o altri femminili; eventualmente in -as-) è particolarmente forte, cf. 198 228 (su un altro tipo di ampliamento in -i o -an / -ar, v. 277).

Gli accidenti fonetici sono numerosi, essendo provocati dalla situazione in fine di parola (strettamente parlando, valido al N. sg. nt.; ma anche, dopo la caduta necessaria di -s desinenziale secondo 103, al N. sg. animato) o dal contatto della consonante finale del radicale con la consonante iniziale della desinenza, ciò che rientra in principio (112 c) nel saṃdhi esterno.

255. La maggior parte delle modifiche sono di tipo elementare: sordizzazione di occlusiva sonora davanti a s- 46 a, es. patsú di pád- “piede”; sonorizzazione di occlusiva sorda davanti a bh- ibid. b, es. marúdbhis di marút- nome proprio; perdita dell’aspirazione, con eventuale trasferimento sulla consonante anteriore 47, es. yutsú di yúdh- “combattimento” o °dhúk qui sotto; cerebralisazione di s (nella desinenza -su) dopo r e k 63, es. vikṣú e gīrṣú qui sotto; sonorizzazione in -r (secondo 136) di un -s finale del radicale davanti a bh-, es. dorbhyā́m VS. di dós- “braccio” (in caso di finale -ās, un trattamento diverso è attestato nell’unica forma mādbhís 72).

  1. In caso di finale palatale (incluso -h), il trattamento è talvolta -k talvolta -ṭ (secondo 99) al N. sg., a seconda dell’origine della palatale da una parte, dall’altra a seconda del condizionamento fonico delle forme. Praticamente, la finale -c passa a -k; allo stesso modo la finale -j (tranne in bhrā́ṭ “che brilla” e rā́ṭ [e composti] “re”); allo stesso modo la finale (tranne in víṭ “clan” spáṭ “spia” e vípaṭ nome di un fiume e forse paḍbhís 62); infine la finale -h passa a -ṭ tranne nelle forme (con trasferimento di aspirazione) °dhak “che brucia” °dhúk “che munge” °dhrúk “che fa violenza”. Soluzioni parallele in -g o -ḍ davanti alle desinenze in bh-, ma ovunque l’aboutissement è -k (59) davanti a -su (da cui -kṣu).
  2. Le rare finali in -ṣ danno anche -k o -ṭ secondo 99 n. 1, incluso davanti a bh- (forma unica: viprúḍbhis 1. c.).
  3. Alcuni di questi risultati sono evitati, al N. sg., adottando una finale più facile in -s, così puroḍā́s e analoghi 100; altre semplificazioni ibid., sabardhú(m) e forse ásmṛtadhrū.

256. Nei pochi temi in -r (nomi di genere animato in -ir e -ur), la vocale penultima si allunga al N. sg. secondo 37: gī́r citato ad loc.; stesso allungamento, per le stesse ragioni, davanti a bh- e -su, gīrbhís e gīrṣú. Per analogia, l’unico nome-radice in -s (cerebralizzabile), āśís- “preghiera” (da ŚĀS-), allunga anche il N. (āśīs X, così come ánāśīr-dā- in composizione “che non dà benedizione”; vaga influenza di āśír- “latte mescolato”?). Allo stesso modo si ha un neutro (avverbiale), sajū́s “in accordo con” 99 con ū.

  1. Il N. aptúr YV. (mantra in juṣāṇó) propriamente “che attraversa le acque” rimane senza allungamento, la parola potrebbe essere stata percepita come formata sul tema aptu- (post-mantrico).
  2. L’ā di vā́r (“protettore” X 93 3 “cosa chiusa” [neutro?] IV 5 8) potrebbe rappresentare un grado forte; tuttavia l’interpretazione è molto incerta. Su svàr dvā́r-, v. 259.

257. Le alternanze vocaliche si presentano solo in forme monosillabiche, e di solito prive di carattere “verbale”. Il tipo dominante comprende -ā- (grado lungo) nei casi forti, -a- (grado pieno) nei casi deboli; il grado zero, che consiste nell’eliminazione della vocale (20), non è attestato nella flessione propriamente detta. a) Nomi in dentale: pā́d- / pád- “piede” (m.). Alla fine di bahuvrīhi, i casi diretti del neutro esitano tra °pāt e °pat, e dopo la RS. °pād- si estende qua e là ai casi deboli. Su paḍbhis, v. 62. Su un grado zero in °bd-, v. 20. Tematizzazione in pā́da- dalla RS. recente.

  1. In hṛ́d- “cuore” (neutro), la base attesa hā́rd- appare talvolta alla fine di bahuvrīhi, da Ac. suhā́rdam (RS.), poi in N. suhā́rt 103 e in altre forme compositive; inoltre, nel “derivato” hā́rdi (casi diretti), fatto come ásth-i 277. Eccezionale (ma dubbio) hā́rt VSK. var. di hā́rdi VSM.
  2. N. sadhamā́t (e °mā́s 400) di °mád-, così come pL. °mā́das.

Un caso complesso è quello di páth- “cammino” (m.). I casi forti sono costruiti su un tema dissillabico pánthā-, N. pánthās Ac. pánthām; mentre i casi deboli davanti a consonante sono in pathí-, davanti a vocale in páth- (tono dei monosillabi). Dall’AS. YY. appare un tema forte esteso in pánthān- (Ac. pánthānam), per influenza del sinonimo ádhvan-; tuttavia l’antico N. sg. persiste. Scivolamenti isolati: N. pl. pánthāsas (I) G. pl. pathīnā́m; un altro N. pl. è patháyas TS. (estensione del tema in -i-).

Máth- “strumento per zangolare” fa, analogamente, un Ac. mánthām, forse un G. pl. mathīnā́m (ma la corretta lezione dovrebbe essere matī°). Infine ṛbhu-kṣā́- (nome proprio) ha, accanto al N. atteso in °kṣā́s, un Ac. °kṣáṇam (secondo ukṣán- e analoghi).

b) Nomi in labiali: ā́p/áp- (f.) “acqua”, usato soprattutto al pl.: sia il N. ā́pas, l’Ac. apás (con confusioni di alternanza 238 n. 2); per dissimilazione, I. adbhís D. Ab. adbhyás 68 (come °sṛ́dbhis 100). Grado zero (con allungamento della vocale anteriore) e tematizzazione, tipo anūpá-2Q; tematizzazione in ápavant- AS. “acquoso”.

Alcuni altri nomi-radice terminati in -ap- presentano forme lunghe al N. pl., interpretabili come gradi forti. Allo stesso modo forse N. pl. nā́bhas di fronte a Ac. nábhas (senso incerto, cf. 196).

258. c) Nomi in -s: nā́s- / nás- (f.) “naso”. Ma la forma forte è conservata solo nel duale nā́sā; i derivati nā́sā- dall’AS., nā́sikā- dal Libro X, la sostituiscono. Mā́s- “mese” non ha più tracce di alternanza, se non al massimo come membro finale, come in candrámas- 175 dove appare un -a- breve nei casi deboli, ma la parola è passata alla flessione in -as-. Tracce dubbie di nasale (che attesterebbero un’alternanza mān / mā?) in māṃścatú- 20 (senso?). Sull’I. pl. mādbhís (accanto a śarádbhis), v. 72.

  1. In ukthaśā́s- “che recita inni”, il grado pieno non è attestato e il lungo è inautentico.
  2. Isolatamente mā́s N. Ac. sg. “carne”, rispetto a māṃs° 157 e all’ampliamento māṃsá- dal Libro I.

Complesso è il caso di púṃs- “maschio”: alternanza púmāṃs- nei casi forti con N. púmān (fatto come il N. dei nomi in -yas- -vas-); púṃs- (63) nei casi deboli davanti a vocale, es. Ac. pl. puṃsás (tono dei monosillabi); V. pumas. I casi deboli davanti a consonante sono in *pumbh- (non attestato nei mantra) e L. pl. puṃsú 74 136.

d) Nomi in nasale: in °hán- “che uccide”, l’alternanza è analoga a quella dei nomi con suffisso -an-: da qui il N. sg. (senza nasale!) °hā́ al maschile (usato a volte anche al neutro; il neutro atteso è ha sostituito da *°hám tematizzato), Ac. °hánam I. °ghnā́ (gh secondo 53) N. pl. °hánas (talvolta “ghánas, secondo le forme deboli) Ac. °ghnás (dal AS.; anche °hánas YV. per confusione con il N.).

  1. Nelle radici in -an(i)- 23, sembra esserci un’antica alternanza -ani- / -an-, da cui il N. goṣáṇis “che guadagna mucche” / G. goṣaṇas (nel V. g°napāt), confusa dall’apparizione di una terza forma goṣā́s, che sviluppa in particolare l’Ac. goṣā́m.
  2. Grado lungo eventuale in N. pl. vánīvānas (X) “che desidera(no)”, di fronte a un virtuale *ván- fatto come tán- rán-, ecc.

In kṣám- (f.) “terra”, la base lunga compare nei casi diretti del duale kṣā́mā (secondariamente, pl. kṣā́mas) e risulta indirettamente dal N. sg. kṣā́s (cf. 97 n. 2), su cui si è sviluppata una flessione in -ā- di tipo “radicale”. La base piena appare, come si conviene, al L. kṣámi; la base ridotta al G. kṣmás (con le varianti fonetiche jmás e isolatamente gmás 53), all’I. jmā́ e in derivati come párijman- ibid., l’avverbio kṣmayā́; altro ampliamento nel L. kṣā́man kṣā́maṇi.

259. e) Nomi in -h: un’alternanza “dissillabica” è conservata frammentariamente in máh- “grande”: flessione debole, abbastanza ben rappresentata, sul tema máh-, con un caso diretto neutro sg. máhi; grado forte in mahā° cf. 247 n.

f) Alternanze di tipo -vā-/ -u-: essa è conservata in primo luogo in un tema in -r, dvā́r- / dúr- “porta” (con alcune confusioni tra N. e Ac. pl. e estensione della base dvā́r- dopo la RS.); alla fine di un composto si hanno °dvāra- e °dura- fianco a fianco. Stessa alternanza, più debolmente attestata, in svàr- (neutro) “luce del cielo” (in realtà, s[ú]var 34), che utilizza la forma di N. Ac. come caso indefinito (cf. 2.37; per il G., il L., eventualmente il D. sg.); la forma debole sū́r- (ū secondo il derivato sū́rya- “sole”?) appare nel G. sū́ras e nel D. (?) sū́re 137, che sono limitati alla RS.

Davanti a -h, si ha un’alternanza regolare nel composto anaḍvah- / anaḍúh- ( secondo 72) “animale da tiro”, i casi in -uh- sono attestati dall’AS. Ci sono scivolamenti di -h a -t secondo 55 -100, e il N. sg. è in -vā́n in AS. YV. (non attestato RS.), secondo i nomi in -vant-. Nei temi in °vā́h-, il grado debole è conservato solo davanti al suffisso del femminile nel tipo dityauhī́- 235 “animale nel suo secondo anno” (dove l’elemento -au- è secondo 116); N. sg. anomalo in 100. Ovunque altrove la base in °vā́h- si mantiene nei casi deboli, cioè l’alternanza è scomparsa. Allo stesso modo °sā́h- “che prevale” (N. ṣā́ṭ 148) estende il vocalismo tranne nelle forme (forti o deboli) dove il metro impone la vocale breve, che è restituita ovunque nel pdp. (tranne nel N. sg.); cf. 165.

g) Infine c’è un’alternanza complessa, a tre gradi, nei nomi del tipo pratyáñc- 195. Ovvero, -añc- nei casi forti, -ac- (praticamente -ak- -ag-) nei casi “medi” (ma solo il neutro sg. è attestato nei mantra); i casi deboli (cioè davanti a vocale) consistono in un elemento c che coincide con l’allungamento della vocale precedente. Ad esempio, l’Ac. pratyáñcam, il N. Ac. neutro pratyák, il G. pratīcás. In prā́ñc- “rivolto verso Est” e simili, il grado medio e il grado debole si confondono.

  1. C’è una discrepanza ancora maggiore tra il tema forte uruvyáñc- “esteso” che allarga *urvañc- con una finale -yañc- presa in prestito dal tipo pratyáñc-) e il tema debole urūc-, conservato nel femminile urūcī́- 210.
  2. Tracce di un grado ridotto in -ik nelle forme avverbiali madrik e simili 24 390.
  3. Tracce di una finale avverbiale autonoma in nīcā́ 20 (che può essere dedotta regolarmente da nyāñc- / nīc-), da cui uccā́ “in alto” da úd, tiraścā́ “di traverso” da tirás (quest’ultimo associato dall’AS. a tiryáñc-), infine paścā́ “di traverso”; da cui normalizzazioni in -cā́t -caís.

Il N. sg. (m.) è in -aṅ (-āṅ) derivato da *aṅks *āṅks secondo 66 n.1; la TS. legge ancora -ṅk. Alcune confusioni di alternanza, come il N. pl. (m.) śvitīcáyas (X) “brillante”, ricostruito sul femminile śvitīcī́.

260. Rimane da menzionare alcuni incidenti di flessione, non ancora citati. La presenza di finali autentiche in -ṅ al N. sg. (tipo pratyáṅ), unita alla presenza di un tema verbale con infisso nasale, ha provocato la costituzione di una base yúñj- e di un N. sg. yúṅ VS. partendo dal nome-radice yúj “associato; compagno”. Allo stesso modo sadṛ́ṅ (101) nella RS. recente, kīdṛ́ṅ (X) “di quale sorta?” (e alcune altre forme, anch’esse su base °dṛ́ś- e a valore pronominale, nella VS.).

  1. Modifiche della finale del radicale in triṣṭúk e anuṣṭúk 100, il motivo è evitare la sequenza labiale + bh- (cf. 228 fine.), quindi il punto di partenza è l’I. pl. e forme analoghe. Altra modifica in prayátsu 100.
  2. Influenza del N. viṣṭáp (dal tema viṣṭábh- “superficie sostenuta”) sul L. viṣṭápi, eventualmente sull’Ac. viṣṭápam. Indirettamente, il consonantismo di iṭ, N. di iṣ- “forza rituale” è passato al derivato iḍā-.
  3. Su dám-(dán), v. 101.

261. B. Nomi con finale vocalico. I. In dittongo. — La finale -ai (-e sconosciuta) è rappresentata solo nel monosillabo raí- “ricchezza” (di solito maschile nella RS., successivamente il femminile è in progressione). Il tema raí- serve davanti a vocale, dando per esempio I. rāyā Ac. pl. rāyás (a volte rā́yas) e, per perdita del secondo elemento (97), l’Ac. isolato rā́m (X), l’Ac. pl. (secondariamente costruito) rā́s SS. Il tema derivato rayí- (di solito maschile; alcuni casi di femminile nella RS.) fornisce le forme davanti a consonante, incluso l’I. rayiṇā (hapax) e rayyā́ (anche, hapax) che raddoppia rāyā́, così come il G. pl. rayīnā́m (rāyā́m hapax). A partire dal Libro X, rayí- invade gradualmente raí-, che tuttavia si mantiene; nei yajus, si hanno forme come rayyā́ rayyaí.

La base di alternanza °ri- è conservata solo in alcune rare finali di bahuvrīhi, come bṛhádri- “dalle grandi ricchezze”; re- in revánt- 216.

I nomi terminati in -au- sono i seguenti: a) senza alternanza, glaú- (raro) “blocco di terra” (m.). N. glaús AS. VS. I. pl. glaubhís VS.; naú- “barca” (f.) con normale passaggio da -au- a -āv- davanti a vocale, Ac. nā́vam. Ampliamento nāvā́- 228 e °nāvá- alla fine di bahuvrīhi.

b) con alternanza, gaú- “bue, vacca” (m. f.). Il tema forte è gaú- (N. sg. gaús) o gā́v- davanti a vocale (N. pl. gā́vas), il tema debole gó- (forma a guṇa!) (L. pl. góṣu) o gáv- davanti a vocale (G. pl. gávām). Il grado ridotto °gu- è conservato alla fine di bahuvrīhi, es. águ- “che è senza vacche”, accanto a °gā(v) e all’ampliamento °gava- °gva-. Tono 239 a.

Forme aberranti: Ac. sg. gā́m e pl. gā́s, che a volte valgono per dissillabi (riduzione di dittongo secondo 97); G. sg. gós (a volte da leggere *gavas 29), che può essere interpretato come il G. di una base gu- a flessione “derivata”; allo stesso modo, necessariamente, il G. pl. gónām (meno frequente di gávām; volentieri alla fine di un pāda). Traccia isolata di un N. sg. gós VS. IV 26 (?).

262. c) Alternante è anche il nome del “cielo” e del “giorno” (maschile più spesso che femminile, con il femminile limitato a una piccola parte delle forme casuali); tema forte dyaú- (N. sg. dyaús) o dyā́v- davanti a vocale (casi diretti del duale dyā́vā N. pl. dyā́vas) -, tema debole dyú- (I. pl. dyúbhis) e dív- davanti a vocale (inversione del supporto sillabico 76) (I. divā́). Un tema “medio” è rappresentato dal L. dyávi, raro rispetto a diví, e dal duale (femminile o neutro?) dyávī, fatto come una sorta di abbreviazione di dyā́vāpṛthivī́. L’alternanza può mantenersi alla fine di un composto, accanto ad alcune forme fisse in °dyu- e °diva- (notare anche l’ampliamento -an- in vṛṣṭídyāvan- MS. KS. “che fa piovere il cielo”). Ma divá- in “semplice” è dubbio, v. 228.

Forme aberranti: V. dyaús (come il N.) o dyaùs 92 (comunque, con mantenimento della desinenza -s.), Ac. sg. dyā́m (come gā́m), a volte dissillabico, G. sg. dyós (raro), da interpretare probabilmente (come gós) partendo da una flessione “derivata” in -u- (il G. usuale rimanendo divás). L’Ac. pl. dyū́n (RS. sola; due volte dívas RS.) segna sicuramente l’intrusione di questa flessione, con desinenza del maschile. Infine si ha l’Ac. sg. dívam, attestante una confusione di alternanza, come il N. pl. dívas AS. e forse RS.

263. II. In vocale lunga. — Ai temi consonantici monosillabici si associano naturalmente i gruppi di monosillabi terminati con una vocale lunga. a) I nomi-radice in -ā́- (derivati da radici verbali in -ā- o talvolta in -an-), usati soprattutto alla fine dei composti e quasi sempre di genere animato, dovrebbero presentare una flessione alternante ā/i o ā/zero (40 e cf. 22). In realtà, le forme deboli (relativamente rare) mantengono il tema pieno davanti a consonante (L. pl. jā́su di jā́- “bambino”); davanti a vocale, si trovano alcuni D. sg. in (ma -aí, cioè ā + é nei D. con funzione di infinito 369) e alcuni G. in -ás (kṛṣṭiprás “che riempie i popoli”; ma -ā́s, cioè ā + s o as in jā́spati- 176). L’Ac. pl. (solo femminile) è in -ā́s. Il N. sg. è naturalmente in -(ā́)s, e il V. si adegua al N. mantenendo -s, come in dyaús. L’I. sg. in -ā́ è di interpretazione ambigua e comunque raro e dubbioso. Alcuni N. sg. sono epiteti di sostantivi neutri o apposti ad essi, come jágat sthā́(ḥ) II 27 4 “ciò che si muove (e) ciò che è immobile”.

  1. L’attrazione verso la flessione “derivata” in -ā-, molto più produttiva, si segnala dalla presenza di diversi N. sg. (solo femminili) senza -s (es. jā́ AS.); inoltre il pdp. omette -s in diversi N. f. dove tuttavia la finale -ā́ è in iato. Prajā́- “discendenza” (f.) è passato interamente alla flessione derivata, tranne alla fine di bahuvrīhi dove si ha N. °prajā́s.
  2. Scivolamento verso la flessione in -a-, soprattutto a partire dall’AS. che sostituisce -ās con -as in diversi N. sg. m. (e -am nt.); già nella RS. in alcune finali mal adattate alla flessione radicale.
  3. Altra tendenza infine nel composto, verso -as-: divákṣasas N. pl. “abitante del cielo” da °kṣā- (N. sg. °kṣās) cf. 163.
  4. Infine, diverse radici in -ā-, specialmente dopo un prefisso, adottano la finale -í-, che coincide con un grado ridotto, ma in realtà si flette totalmente secondo il paradigma “derivato”, come nidhí- “deposito” 203.
  5. Il N. sg. átathās (I) “che non dice sì” è da interpretare come una formazione istantanea.

264. b) I nomi-radice in ī́ (tutti sostantivi femminili, tranne il maschile vī́- “che riceve”), e quelli, più numerosi, in -ū́- (sostantivi femminili, tranne i maschili jū́- “che si affretta” sū́- “che genera”), identici per la maggior parte alle radici verbali in -ī- e -ū-, usati uno e l’altro di solito alla fine di composti, possiedono anch’essi la flessione “radicale”, ma senza traccia di alternanza. N. sg. sigmatico.

Il tratto fonico notevole è la risoluzione (scritta) di ī ū in iy uy davanti a vocale: costante secondo 32 b nell’uso “semplice” (Ac. dhíyam “pensiero”) e, alla fine di un composto, dopo doppia consonante (secondo 33 d) (D. sg. yajñapríye “che ama il sacrificio”), fluttuante dopo una singola consonante (N. pl. nānādhiyas “con diverse intenzioni” sudhyàs “con buone intenzioni”) e, in questo caso, più frequente in caso di ū che in caso di ī.

Inoltre, secondo 34, la risoluzione è da praticare quasi ovunque dove non avviene graficamente.

Dal punto di vista morfologico, la flessione “derivata” 267 sqq. ha lasciato il segno, prima sul G. pl. che è in -īnā́m -ūnā́m (eccezionalmente -iyā́m -uvā́m in dhiyā́m “pensiero” bhuvām (atono) VS. “terra” jóguvām [tema raddoppiato, tono intensivo] (X) “che canta forte”). Poi su alcune forme isolate: D. in (una sola volta RS.: bhiyaí “paura”), L. śriyā́m AS. “gloria”, Ac. asū́m VS. “non generante”, pl. devaśrī́s TS. VS. “che glorifica gli dei”, ecc. Dopo la RS. questi tratti si diffondono, e un N. asigmatico (almeno nei nomi in -ī-) fa la sua comparsa.

  1. Accordo di un aggettivo maschile e di un sostantivo neutro: gotráṃ hariśríyam (Ac.) Val.
  2. Abbreviazione in -i- e in -u- (che equivale all’assorbimento nella flessione “derivata”): D. pl. ṛtaníbhyas “che guida secondo l’Ordine” e alcuni altri dopo la RS.; già dalla RS. nei composti in °bhú- “che è, che diventa”, soprattutto al neutro, con concorrenza della forma °bhū́-,

265. c) Tra gli altri nomi in -ī- e -ū-, una parte dei nomi in ī́ tonico (alcuni maschili come rathī́- “che va in carro” e una maggioranza di sostantivi femminili senza corrispondente maschile; anche sostantivi o aggettivi il cui corrispondente maschile è spesso in -a- atono o in -yà-), così come la totalità dei nomi in -ū- (quasi tutti femminili), che sono tutti ossitoni, seguono la flessione radicale, sebbene in gran parte abbiano una finale suffissale: l’accentazione li ha assimilati ai nomi radicali.

  1. Alcuni composti in dove l’ossitonèsi è stata respinta dal tono composito appartengono qui. — Per quanto riguarda i nomi in -ū́-, sono sostantivi (in parte corrispondenti a maschili o neutri in -u- atono) o aggettivi (corrispondenti a maschili in -u- tonico).
  2. La risoluzione in iy è scritta solo dopo due consonanti secondo 33 d; è da restaurare altrove secondo 34, tranne rarissime eccezioni. Lo stesso vale per uv, che tuttavia (come 264 n.) è attestato un po’ più spesso nel testo scritto.

La flessione dà N. sg. rathī́s (precedentemente citato) o tanū́s “corpo”, Ac. rath(í)yam e tan(ú)vam (tono 239 n.), casi diretti pl. rath(í)yas e tan(ú)vas. Ma diverse finali sono prese in prestito dalla flessione “derivata”, vale a dire G. pl. in -ī́nām e -ū́nām (costante) come nei nomi descritti 264; V. sg. in -i e -u. Più tipicamente, l’influenza dei “derivati” in ī si segna sulla flessione radicale in ī́ con la presenza di alcuni N. sg. asigmatici, almeno a partire da AS. YV. (nadī́ “fiume”, ecc.; molte fluttuazioni nei yajus; nella RS. il caso di rathī́va = rathī́r iva si spiega con la natura speciale dell’i iniziale di iva). Allo stesso modo si hanno Ac. nadī́m AS., L. dūtyā́m “messaggera” RS., N. du. puruṣī́ TS. “donna”, Ac. pl. arunī́s RS. “mucca”. Alcune finali resistono meglio di altre; le desinenze radicali di D. Ab.-G. e L. del sg. sono totalmente scomparse dopo la RS.; sopravvive solo a volte il svarita che segnala la presenza precedente di una flessione “radicale” 239 n. Nei nomi in -ū́-, che non avevano una flessione “derivata” correlata, l’attrazione è meno forte. Tuttavia, alcune finali si ispirano alla flessione derivata in ī. Ad esempio, Ac. ū́m invece di - (ú)vam in AS. YV.; D. -(u)vaí e -(u)vaí invece di -(ú)ve, ivi; Ab. G. -(ú)vās, ivi; il L. - (u)vām o -(u)vā́m è già presente nel Libro X (śvaśrvā́m “suocera”), e il N. pl. yuvayū́s “che vi ama”, fin dalla RS. antica. Al contrario, il N. sg. in -s si mantiene ovunque. Le variazioni nei mantra attestano il progresso delle finali fem. in -vai -vās -vām, e il flottamento accentuale sottolinea le interferenze flessionali.

  1. C’è un L. sg. senza desinenza in camū́ “tazza” e tanū́ (X) (accanto a camvì tanvì, spesso -vī̀ ); nei nomi in ī́, è addirittura l’unico attestato: gaurī́ “bufala” e alcuni altri. Il pdp. tratta queste finali come pragṛhya.
  2. Lo scivolamento verso -i- e -u- è raro, soprattutto nei mantra antichi: naptís “nipote femmina” in AS. e alcune finali di bahuvrīhi nel YV., come V. °tano.

266. III. In vocale breve. — Nessun nome, neanche monosillabico, terminato in -a-, segue la flessione radicale; lo stesso vale per i monosillabi in i (da radici in ā 203), né quelli in -ú- (da radici in -ū- -u-, eventualmente -ā- ibid.).

Tuttavia, alcuni rari nomi dissillabici in -i- -u-, specialmente i neutri (o antichi neutri mascolinizzati) parossitoni, si flettono in parte come se terminassero con una consonante, cioè -y o -v: quindi, flessione radicale, non alternante. Per quanto riguarda i nomi in -i-, non c’è quasi nessuno (a parte páti- 270) tranne ávi- “pecora”, con un G. sg. tipico ávyas, preservato in una formula del Libro IX; poi arí- “straniero” che, a parte l’accentazione, si flette come un nome radicale in -ī-, almeno in alcuni casi: Ac. aryám, Ab. G. sg. e casi diretti pl. aryás; l’Ac. sg. è arín, quindi ambiguo; si ha una volta, per rima, il D. aráye secondo il tipo normale dei nomi in -ī́-, infine l’analogia con i nomi in -ī́- è spinta qui e là più lontano: N. sg. arī́s VS., Ac. yayyàm “che si affretta” e alcune altre forme di base incerta.

Per quanto riguarda i nomi in -u-, si hanno diverse volte un I. sg. in -vā (krátvā “con forza”), un D. in -ve (krátve) e soprattutto una finale -vas di Ab. G. e casi diretti pl. (krátvas, °kṛtvás 391, mádhvas “dolce”, vásvas “buono”, ecc.). Anche qui, forme ispirate al tipo normale in -u- si sono introdotte, G. pl. in -ūnām -ūnā́m, Ab. G. sg. come vásos e (nt.) vásunas concorrentemente a vásvas, Ac. pl. paśū́n “bestiame” concorrentemente a paśvás, ecc. In queste due flessioni, conformemente all’origine, l’elemento -y- -v- non è risolvibile, salvo rare eccezioni.

Un altro nome “radicale”, di un tipo completamente diverso, è sákhi- “amico”. Unico tra tutti i nomi a finale vocalica, ha conservato un’alternanza regolare, tema forte sákhāy- (Ac. sákhāyam; N. sákhā con caduta di -y finale secondo 97, come i nomi di parentela in -[t]ā); tema debole sakhi- (propriamente sákhy-), così D. sákhye. Ma l’influenza dei nomi di parentela 253 si segna nell’Ab. G. sákhyuḥ dove la finale del tipo pitúḥ è stata trasferita sul tema sákhy-, come se fosse una desinenza. L’influenza dei nomi “derivati”, d’altra parte, si segna sul V. sákhe Ac. pl. sákhīn G. sákhīnām. La flessione ibrida è generalmente conservata alla fine di un composto (dove serve eventualmente per il femminile), accanto alla forma tematizzata °sakha-.






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