sanscrito vedico

flessione vocalica



II. - FLESSIONI VOCALICHE (del tipo “derivato”).

277. Temi in -ī-. — Le caratteristiche specifiche delle flessioni “derivate” (che sono state adottate da diverse flessioni radicali) includono le desinenze del G. pl. con una vocale allungata (se non è già lunga) + n + ām; le desinenze dell’Ac. pl. con una vocale allungata (se non è già lunga) + n, specializzate per il maschile, mentre il femminile conserva la desinenza in -s. Il N. sg. è asigmatico dopo una vocale lunga. La desinenza corta è scelta dove esiste un doppio -s / -as o m /am. Infine, le alternanze vocaliche di tipo normale sono assenti; sono sostituite da variazioni diverse nella struttura del vocalismo predesinenziale.

Le flessioni femminili (quelle in -ā-, -ī- e parte di quelle in -i-, -u-) hanno alcune caratteristiche che le contrappongono alle flessioni m.- nt. (quelle in -a- e parte di -i-, -u-).

La maggior parte dei nomi in -ī- (cioè, tutti quelli che corrispondono a maschili non terminanti in - a-, e tra i maschili terminanti in -a-, soprattutto derivati in -ī- atono) seguono la flessione “derivata”: si tratta principalmente di femminili (con alcuni maschili, per lo più nomi propri).

Oltre alla qualità non risolvibile di -y- davanti a una vocale (eccetto nei casi menzionati in 34 d), che porta al trasferimento del tono sulla desinenza secondo 239 c, le caratteristiche essenziali sono le seguenti: N. sg. senza -s, devī́ “dea”, V. in -i breve, Ac. sg. a desinenza corta, devī́m, N. Ac. pl. allo stesso modo, devī́s, G. pl. in -nām, devīnā́m (trasferimento del tono 240). I casi diretti del du. sono in (pragṛhya 122), quindi apparentemente senza desinenza ( abbreviato metricamente nel V. pṛthivi 167 se è davvero un du.; similmente forse máhi, stesso senso, IV 56 5 X 93 1), in realtà = -ī + ī.

Un’altra caratteristica notevole è l’utilizzo nelle forme oblique del sg. (indistintamente all’I.) di una base -yā-, dove si riconosce un grado pieno rispetto a -ī-. Da qui, per contrazione vocalica, (I. -yā) D. -yai Ab. G. -yās; il L. (-yām) ha un elemento nuovo -m sostituito alla desinenza usuale o piuttosto ampliando il tema nudo in -yā-; tono di queste desinenze 239 c. Traccia isolata di un I. senza desinenza, śámī “dolore” (o da śámi-?).

  1. I nomi di questa serie sono soggetti a subire l’influenza dei radicali in -ī́-: da qui l’intrusione dei casi diretti del du. in -yau da AS. VS. e, isolatamente, yahvyàs Ac. pl. (X) “giovane” e alcuni altri. La parola strī́- “donna” è a parte, a causa della sua apparenza monosillabica: da qui le forme di Ac. sg. e casi diretti pl. stríyam e stríyas (risoluzione iy a causa del gruppo consonantico) secondo i monosillabi radicali in -ī́-.
  2. Ci sono numerosi scambi e incertezze tra la flessione in -ī́- e quella in -i- senza che si possa determinare se si tratta di un fenomeno suffissale o flessionale. Ad esempio, un nome come óṣadhi- / -ī́- “pianta” forma un N. sg. in -is (I), Ac. in -im (X; -īm AS.), N. pl. -ayas (X), V. -e (I) accanto a molteplici forme (al pl.) sulla base lunga. Cf. anche il D. pl. nā́ribhyas (RS. antica) di nā́rī- “donna”. La parola rā́trī- “notte” passa parzialmente alla flessione breve dall’AS. Il ruolo degli adattamenti metrici è innegabile.

Per quanto riguarda i temi in -ū-, non hanno propriamente una flessione “derivata”, sebbene, come abbiamo visto in 265, prendano in prestito alcune desinenze dai nomi in -ī́- (ed altre dai nomi in -u).

268. Temi in -ā-. — Questa flessione, molto ricca e esclusivamente femminile, include la grande maggioranza dei nomi terminanti in -ā- (inclusi alcuni nomi-radice, vedi 263 n. 1; sul caso di kanyā̀-, vedi 250). Le caratteristiche sono le seguenti:

N. sg. senza -s, come i nomi in -ī- derivati. Le desinenze del tema sono modificate in -ay- (-e-) per formare l’I. sg. in -ayā, il G. L. du. in -ayos, il V. sg. (senza desinenza) in -e. Questi fatti sono di origine pronominale, ma -ayos può essere in relazione con i casi diretti del du. in -e (pragṛhya 122), il quale deriva da ā + ī (stessa desinenza dei nomi in -ī- 267).

  1. I temi in -yā conservano un I. sg. apparentemente senza desinenza (in realtà, ā + ā); si tratta di un’aplologia per -yayā 77 n. 1, es. sukṛtyā̀ “con buon modo di fare”. Stesso fenomeno per i nomi con suffisso o pseudo-suffisso -tā-, come devátā 222: in realtà, è l’I. del suffisso -tāt-l. c. Le desinenze piene -yayā -tātā sono comunque attestate, come māyáyā “con magia” sarvátātā “con pienezza”.
  2. Ci sono alcune desinenze avverbiali in derivate da temi in ā-, come doṣā́ “alla sera”, ma potrebbero essere un’imitazione delle desinenze avverbiali della stessa forma; in ogni caso, gli esempi citati di I. in derivati da nomi in -ā- sono per la maggior parte dubbi o errati; si può citare il semi-avverbiale manīṣā́ “con riflessione” [trattamento speciale della finale -ṣā-?]. Da notare svāveṣā́ VS. “facile da avvicinare” che varia con -śáyā MS. KS.
  3. V. amba, parola infantile.

Il G. pl. è in -nām, come nelle flessioni vicine (desinenza -ām incerta, in alcune forme). Nei casi obliqui del sg., a partire dal D., le desinenze sono -yai-yās -yām, prese in prestito dai temi in -ī- e trasferite tali e quali dopo l’ā finale di base, quindi D. -āyai, Ab. G. -āyās, L. -āyām.

  1. Una desinenza -(y)ai per -(y)āyai si è introdotta per aplologia dopo un -y-, come in svapatyai (I) D. di svapatyā́- “con bella discendenza”.
  2. G. sg. in -s nel pseudo-monosillabo gnā́s° 176 (come nel monosillabo jā́s° ivi e 263).
  3. Un N. pl. -āsas si è introdotto in diverse forme di RS. e (raramente) di AS., per imitazione dei temi in -a-; ancora più raro è -āsas all’Ac. pl.

269. Temi in -i- e in -u-. — Tutti i nomi in -i- e in -u- (inclusi i monosillabi) — ad eccezione dei rari nomi menzionati in 266 — seguono una singola flessione “derivata”. All’interno di questa flessione, si stabilisce una differenziazione secondaria:

a) tra il neutro e il genere animato: un elemento -n- (comparabile a quello del G. pl. in -nām) si inserisce nel neutro tra il tema e le desinenze vocaliche, dapprima frequentemente nei casi diretti del pl. che sono in -īni -ūni (come i nt. dei nomi in -a- 276), poi, sporadicamente, al sg. e al du. (preferibilmente e inizialmente nei sostantivi in -u-, da lì negli altri).

b) Un’altra differenziazione si verifica tra maschile e femminile: i femminili adottano alcune particolarità prese in prestito dalle altre flessioni “derivate” propriamente femminili. Così, al femminile, si hanno Ac. pl. in -īs-ūs (antica finale mantenuta, come altrove -ās e persino -ṝs 252), mentre i corrispondenti maschili adottano la finale -īn -ūn (come altrove -ān e persino -ṝn).

Per innovazione, le desinenze femminili dei casi obliqui del sg. (a partire dal D.) adottano l’aspetto -yai -yās -yām (raro nell’antica RS.), così come -vai-vās -vām (inusitato prima della RS. recente), proprio delle flessioni a vocale lunga.

Infine, la confusione con la flessione in -ī- porta in alcuni casi a N. sg. in , V. -i (dopo la RS.), N. pl. -īs (o: confusione con l’Ac.), D. -ībhyas L. -īṣu (dopo la RS.): così, da bhū́mi- “terra” (possibile influenza di pṛthivī́- stessa semantica) si ha N. bhū́mī (incerto) accanto a bhū́mis, X. Ac. pl. bhū́mīs, ecc. Più raro nei nomi in -u-.

Questa flessione, essendo l’unica a fornire contemporaneamente maschili e femminili, era importante marcare grammaticalmente la differenza di genere.

270. Un rinforzo della vocale finale del tema, di tipo guṇa, si presenta in diverse desinenze oblique o dirette, senza che si possa riconoscere un’alternanza regolare. Ad esempio, il D. sg. e il N. pl. comportano l’allargamento tematico in -ay- -av-, l’Ab. G. sg. ha altresì -e- -o- (in presenza della desinenza corta -s); similmente il V. sg. e (raramente) il L. (nei nomi in -u-). Infine, c’è un rinforzo più marcato, di tipo vṛddhi, al L. sg.

  1. Alcune alternanze regolari si mantengono: a) nel radicale di alcune parole parzialmente monosillabiche, dā́ru “legno” G. drós; sā́nu “plateau” G. snós 1. pl. snúbhis (e cfr. le forme compositive jñu° °jñu- dru° 238), quindi alternanze di tipo ār/r e ān/n; b) nell’elemento suffissale, al N. sg. vés (accanto a vis) di vi- “uccello” (monosillabo! āpés “amico” non è da considerare come N.) e yós, N. avverbializzato di una parola yú- che significherebbe “prosperità”?
  2. La parola páti- “signore” segue la flessione comune. Ma nel senso di “sposo” è stata attratta nell’orbita dei nomi di parentela 253, da cui G. pátyuḥ fatto come sákhyuḥ 266, che a sua volta induce il L. pátyau. Vi è traccia, inoltre, di una flessione “consonantica” (paty- come ary- 266), da cui l’I. pátyā, che porta al D. pátye. Infine, la flessione usuale dei nomi in -i- prevale all’I., a partire dall’AS., quando páti- “sposo” appare come membro finale (es. vācáspátinā “sposo di Vāc”), mentre al contrario si ha l’I. gṛhápalyā VSK. ad II 27 nel senso di “padrone di casa”, rispetto al semplice pátinā, “signore”.
  3. Da pátyuḥ sembra derivare una volta un G. jányuḥ (X) tratto da jáni- “moglie”.

271. La flessione culmina quindi in questo, caso per caso: N. sg. animato -is -us(-es sopra n. 1); inanimato -i -u (con possibile allungamento metrico, almeno in purū́ “numerosi” urū́ “vasto” (l’allungamento di mīthū 383 è di un tipo diverso).

Ac. animato -im -um (passato al nt. in sānasím TS. III 4 11 p “che vince”); all’inanimato, come il N.;

all’I. sg., tre forme competono: nei nomi in -i-, al f., due volte più frequente che -(i)yā e a volte abbreviato in -i (vale a dire, nella finale -ti 109 n.); infine -inā al m. e al nt. Nei nomi in -u-, (limitato a poche forme avverbiali, più o meno dubbie), -(u)vā al f., -unā al m. e al nt. Le finali -inā -unā avanzano dalla RS. recente e passano addirittura eccezionalmente al f.;

D. -aye -ave ai tre generi; ma, al f., -yai -vai appaiono nella RS. “media” e recente. Al nt. c’è traccia di una finale -une (inserimento di -n-); infine, al f., probabilmente un (abbreviabile) per analogia con l’I.;

Ab. G. -es -os; al nt., le stesse finali e inoltre -inas (posteriormente alla RS.), -unas; nel f. si trovano anche -yās -vās, ma raramente e solo dalla RS. recente.

  1. Le forme di Ab. vidyót “fulmine” didyót “arma brillante” (YV.) sono fatte meccanicamente sui N. in -út, secondo l’equazione -us / -os, sollecitata dalla presenza dei doppietti vidyú- e didyú- (195).
  2. Svasti- “benessere” ha una finale senza desinenza, scarsamente differenziata, utilizzata per l’Ac., l’I. e apparentemente anche il D.

272. Al L. sg., la situazione è piuttosto complessa: a) i nomi in -i- hanno davanti a una consonante, che è la finale prevista 97 per un antico ai; ma davanti a una vocale (sotto forma di -āv) e (più frequentemente) alla fine di un pāda (sotto forma di -au) prendono in prestito la finale di L. dei nomi in -u-; -au anche davanti a consonante a partire dalla RS. recente, mentre tende a scomparire dopo la RS.; infine, fin dall’origine, prevaleva per dissimilazione davanti a un ū-;

b) i nomi in -u- generalizzano la finale -au (non ci sono esempi certi di atteso per 97), che aveva il vantaggio di preservare il vocalismo del suffisso; accanto a questo c’è traccia di un “grado pieno” -o, almeno nella formula (ádhi) sā́no ávye “sulla superficie del setaccio di lana” (pdp. -au, RPr. -āv) dove -o è metricamente breve ed è stato impedito, forse per dissimilazione, di diventare -āv; lo stesso in vásta usráḥ “all’illuminare dell’alba”, con risoluzione di -o in -a (ma il pdp. restituisce váste!).

Vi è traccia nei nomi in -u- di una finale normalizzata in -avi in alcune formule (ma non -ayi). Traccia anche di una finale (abbreviabile), così come (abbreviabile) nei nomi in -i- (ma védy asyā́m, pdp. védī, “su questo altare” può essere spiegato per aplologia da védy(ām) asyā́m; prob. úpaśrutī SB. I 9 4 4). Infine, al neutro, due forme sono attestate in -uni (niente in -ini).

V. sg. -e -o (cfr. 122); al neutro le stesse o bene -i -u (úro antarikṣa YV. “oh vasto spazio aereo!”: úru VSK. ad IV 7).

273. Al duale animato, i casi diretti hanno le finali (pragṛhya 122) (come nei temi in -ī-) e ; stesse finali al neutro, dove -inī -unī compaiono dopo la RS.;

Anomalie: bāhávā (grado pieno!) accanto a bāhū́ “braccio”; agnā° 168 in dvandva (per agnī°) secondo indrā°.

casi obliqui normali del duale e del plurale in -bhyām -o s (una volta -unos, al neutro nell’AS.) -bhis -bhyas -nām (sul G. di trí-, v. 294) -su (makṣū́bhis essendo una pluralizzazione dell’avverbio makṣú a finale allungata).

Rimangono i casi diretti del plurale: al N. -ayas -avas, con tracce di -īs nelle femmine, di -iyas -uvas nei maschi (influenza dei nomi-radice in -ī- -ū-);

all’Ac. -īn -ūn nei maschi; -īs -ūs nelle femmine (separazione pienamente realizzata dalla RS.); al neutro infine -īni -ūni, ma con numerosi doppietti in , essi stessi soggetti ad abbreviazione metrica (come si ha e -a accanto a -āni nei temi in -an-); le giustapposizioni abbondano, es. purū́ṇi vásu (anche vásūni) “numerosi tesori” / purū́ vasūni / purú vásūni.

274. Temi in -a-. — Questi temi (m. e nt.), di gran lunga i più produttivi di tutti — comprendono tutti i nomi terminati in -a-, anche i monosillabi (che sono usati poco tranne che alla fine dei composti, tranne khá- “apertura”) — sono anche i più distanti dalla flessione consonantica; spingono al massimo le caratteristiche comuni delle flessioni vocaliche e inoltre adottano diverse particolarità, tematiche o desinenziali, derivanti dai pronomi in -a-.

Il tratto importante riguardante la finale del tema è proprio di origine pronominale: la sostituzione di -e- (-ay-) a -a- nei casi obliqui del pl. (tranne il G.) e all’I. sg., ai G. L. du. ; abbiamo già visto lo stesso fatto nei nomi in -ā-, che sono strettamente correlati semanticamente a questi. Per quanto riguarda le desinenze, c’è un insieme di nuove finali, in parte anche pronominali; è importante notare in particolare la discriminazione, non realizzata altrove nel Nome, tra l’Ab. e il G. al sg. (con due finali inedite); infine, la vitalità di alcuni doppioni, in relazione al carattere composito, in parte secondario, del paradigma.

Sántya (V.), epiteto isolato di Agni, potrebbe riflettere un grado di alternanza autonomo, rispetto al tema comune satyá- “vero”. A parte questo caso (incerto peraltro) non c’è in realtà alternanza se non l’ossitonesi avverbiale 387.

275. Il paradigma è quindi il seguente: Al sing., N. m. -(a)s, Ac. nt. -(a)m (desinenza corta); casi diretti del nt. quindi identici all’Ac. m.: il fatto è particolare a questa flessione.

I. -ena (finale allungabile 109 almeno nella RS. e soprattutto al nt.), in concorrenza con che, caratteristica dei mantra antichi, si mantiene qua e là nei mantra più recenti, particolarmente al nt. o in uso avverbiale distaccato dalla flessione, come in sanā “di vecchia data”.

D. -āya (forse spiegabile come un grado forte -ai-, rappresentante -a + e, seguito da una postposizione ā abbreviata; ma la restituzione metrica āyā non è attestabile con certezza da nessuna parte).

Si ha aplologia in suvivyā D. di suvī́rya- “ricchezza in eroi” e in alcuni altri casi dubbi di finale o -ai.

Ab. -āt (-ād), spesso dissillabico 29. G. -(a)sya, eccezionalmente trisillabico 34 n. 2, eccezionalmente anche con finale allungata 109. L. -e (= -a + i). V. -(a), quindi desinenza zero (-ā eccezionale 109, per esigenza metrica come vṛṣabhā VIII 45 22 e 38, o forse “plutizzazione” spontanea della vocale); al nt. (influenza del m.?) si ha -a, come in amṛta bhojana I 44 5 “oh gioia immortale” (unico esempio per la RS.) e alcune forme AS. e altrove; talvolta, nei mantra recenti, -(a)m come nei casi diretti del nt.

Al duale, i casi diretti sono al m. o -au secondo la ripartizione data 236 n.; vi è (come in pṛthivi 267) possibile abbreviazione di al V., nei mantra più antichi (sostituzione del sg., come talvolta nei V. di dvandva con membri separati 167 n.?). Al nt., -e (pragṛhya 122), cioè -a + ī.

I. D. Ab. -ābhyām (allungamento della finale tematica secondo i casi diretti m.); G. L. -ayos; la finale attesa -os è conservata solo in pastyòs (X) da pastyà- “soggiorno” (dissimilazione) e in alcuni altri casi dubbi; inoltre in alcuni pronomi 284.

276. Al plurale, nei maschili, -ās è in competizione con -āsas; -āsas è in rapido declino (una finale su due nella RS., una su 24 nelle porzioni autonome dell’AS.); entrambe coesistono spesso nelle parole giustapposte e la metrica invita talvolta a restituire -āsas per -ās 29; l’origine di -āsas è una reduplicazione -ās + as, favorita dalla presenza delle finali dissillabiche -ayas- -avas nei nomi in -i- e in -u-,

Ac. -ān (derivante da ān-s, come indicato dal saṃdhi 128). Al neutro, i casi diretti sono (non abbreviabile) o -āni (nella RS. ci sono due volte -āni contro tre volte , poi la proporzione si inverte presto); anche qui le due finali coesistono nelle parole associate, tipo víśvā bhúvanāni “tutti gli esseri”, cioè predominanza di negli aggettivi, di -āni nei sostantivi. La forma -āni è dovuta all’influenza dei casi diretti dei nomi nt. in -an-, nei quali coesisteva anche 250; l’insieme delle finali nt. tendeva comunque verso la soluzione: vocale lunga + nasale + i.

I. -ebhis, in concorrenza con -ais, più o meno nella stessa proporzione nei mantra antichi, poi con eliminazione progressiva di -ebhis che originariamente dominava negli aggettivi (ciò è in linea con l’origine pronominale dell’elemento -e); dissillabismo eccezionale di -ais 29 D. Ab. -ebhyas (come -ebhis, ma senza variante). G. -ānām; L. -eṣu.

  1. Una finale arcaica G. pl. -ām (generalmente a-am 29) è conservata nella formula devā́n jánma 1 71 3 “la razza degli dei”, dove tuttavia non è escluso che si tratti di due nomi apposti (pdp. -ā́n). Da lì, mártām I 70 6 (scritto jánma… mártāṃś ca, stessa osservazione) e IV 1 3 (viśa ā́ ca mártān, dove si potrebbe pensare a una finale sincopata per martānām) e 11; alcuni altri casi dubbi.
  2. La flessione in -a- ha generalmente raccolto l’eredità di molti altri tipi di flessione 228 e passim. Tuttavia, almeno alla fine di un composto, c’è uno spostamento sporadico da -a- a -as-163 (verso -an- ivi).

277. Flessioni eteroclite. — Diversi nomi i cui casi obliqui (davanti a una vocale; talvolta anche davanti a una consonante) sono uniformemente in -(a)n- formano i casi diretti secondo un altro tipo di flessione. Si tratta di neutri, e che appartengono a un sistema antico di flessione, che si è parzialmente disintegrato e normalizzato. Designano per lo più parti (o prodotti) del corpo.

a) Un primo gruppo è in -i /-an-, questi due elementi non sono altro che ampliamenti basati su un nome-radice di cui rimangono rare tracce. Ad esempio, N. Ac. ákṣi I. akṣnā́ “occhio” (tono 239 c), il nome di base è conservato in anák 196 e possibilmente nel du. (casi diretti) akṣī́ (cfr. il tono finale!), rifatto in (ákṣiṇī AS. e servendo da base ai casi obliqui akṣī́bhyām (X) akṣyós AS. Allo stesso modo ásthi “osso” dádhi “latte cagliato” sákthi “coscia”, dove il tema nasale è in progressione: lo si trova nei casi diretti del pl. (sakthā́ni fin dalla RS. antica, come del resto akṣā́ṇi; concorrentemente, ákṣīṇi AS. ásthiṇi AS. YV.). La confusione è notevole alla fine di un composto e le anomalie abbastanza numerose. L’elemento -i è lo stesso che si ha in hā́rd-i 257; risponde, per quanto riguarda la distribuzione, alle forme in -t (-k) qui di seguito.

b) Un secondo gruppo è in -ṛt- (o: -ṛk)/ -an-, come N. Ac. yákṛt “fegato” G. yaknás(tono 239 c); oppure ásṛk “sangue”, asnás; śákṛt “sterco”/ shaknás, ecc.; chiaramente l’elemento -t è una dissimilazione da -k.

c) Una variante dell’alternanza precedente è -ar-/-an-, ma è conservata solo molto frammentariamente: in udán- “acqua” (ampliamento di un ud- non conservato), i casi diretti in udar (implicati dai derivati udrín- “acquoso” samudrá- “oceano”, ecc.) sono sostituiti da udaká-; in áhan- “giorno”, la base in -ar è mantenuta al N. Ac. áhar, ma estesa altrove scivolando verso -as (áhobhis fin dalla RS. recente, ecc.); lo stesso per ū́dhan- “mammella” (ū́dhaḥsu fin dal Libro X, ma ū́dhabhis).

278. Altrove ci sono solo tracce isolate, sia di -ar sia di -an, con o senza alternanze residue:

d) A āsán- “bocca”, doṣán- “braccio”, yūṣán- “brodo”, corrispondono, in condizioni analoghe alle precedenti, il derivato āsyà- (dal nome-radice ā́s-, ancora conservato diverse volte nella RS., in particolare all’I. sg. avverbiale); il nome-radice dós-, debolmente attestato; il derivato yūṣá- (in un mantra di TS. KS. = yūṣán- VS. MS.) (yū́ṣ- essendo post-mantrico).

e) A śīrṣán- “testa” corrisponde, nei casi diretti, śíras- (śīrṣán- essendo l’ampliamento di śíras- con finale abbreviata a causa della presenza di un secondo suffisso, come táviṣī- 202; ī secondo 37); il tema nasale passa al N. sg. sotto forma tematizzata (śīrṣám AS.) e l’altro tema progredisce nei mantra recenti. — In ū́dhani (L.) “freddo”, manca il tema in -ar. f) A dhánvan- “arco”, che fornisce soprattutto i casi obliqui, corrisponde dhánus- nei casi diretti del sg.; la ripartizione doveva essere la stessa per párus-/ párvan- “articolazione del corpo”, ma si è confusa. g) Il caso di yóṣan-/ yoṣí(t)- 234 potrebbe essere accostato a a, ma si tratta di un femminile. h) Sopravvivenza di -ar/ -an (o di una delle due forme soltanto) in composizione e in derivazione nominale o verbale: vasar°/ vasan° 231 (heman° ibid.); vanar°/ vánan° 217; ánar° 72 jā́marya- 217; sūnára- 163; rathar° / rathan° 173 176. Cf. infine i denominativi in -anyáti- -aryáti 360.

Altri tipi di eteroclisi in páth- 257 púṃs- 258.






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