sanscrito vedico

fonetica



V. – FINE DI PAROLA

94. La fine di parola (anta), considerata di per sé - il che praticamente equivale, al di fuori del pdp., alla situazione di pausa (virāma, avasāna) - comporta delle modifiche che sono in parte conseguenze del fenomeno fonico interno, in parte sviluppi o innovazioni dovute a un certo logorio, a una tendenza verso una pronuncia approssimativa.

La situazione di pausa non è direttamente comandata dalla fine della frase. Dipende, nelle unità metriche (che formano la maggior parte dei mantra), dalla fine della strofa. Costituisce inoltre una pausa (anche in caso di enjambement) la mezza-strofa o la fine del primo pāda pari (anche se la strofa contiene solo 3 pāda; cfr. tuttavia 111). Il RPr. conosce delle pause dopo 3 pāda in strofe di 5 pāda, e addirittura in strofe di 4. — Durate diverse della pausa nel TPr. (sopra 15). — Oggi si pratica una pausa leggera alla mezza-strofa.

95. Vocali. — Le vocali non sono in principio modificate in finale (dove la loro durata sarebbe di due more secondo VPr., ciò che implica un [sovra]-allungamento). Teoricamente, possono essere nasalizzate RPr., ma questa nasalizzazione (raṅga), segnata dall’anunāsika 12, si realizza in effetti solo: a) per le vocali plutate 93 — questo è l’unico caso ammesso da Śākalya nel RPr.; b) nella RS., per un - ā̆ finale del pāda dispari davanti a vocale, specialmente davanti a e- o, quindi in una posizione della strofa che di solito non vale come pausa: così ghanénaṃékaḥ I 33 4. Si trattava di evitare lo iato, ma il fenomeno è secondario, poiché un saṃdhi autentico del gruppo upásthā + ékā (scritto upásthāṃékā I 35 6) sarebbe stato upásthāv ékā. — Su un raṅga analogo in saṃdhi, v. 11

96. Si deve considerare come un trattamento di fine di parola la rappresentazione per -ur (-ir solo nella finale allargata -ire 3° pl. medio) di un r finale, ossia:

a) nella desinenza -ur 3° pl. attivo; b) al N. Ac. nt. dei temi in -(t)- (raro; fluttuazioni 252); c) al G. Ab. sg. degli stessi temi (frequente), dove la finale di base era + s; d) (secondo 37) al N. sg. di alcuni nomi-radice nell’aspetto -ūr (-īr), con, è vero, l’estensione di detto aspetto (o di -ur -ir) attraverso tutta la flessione.

Il timbro u si spiega per l’affinità della vocale velare e di r cerebrale. Insomma, la finale non è attestata da nessuna parte, tranne che al termine di un membro anteriore di composto (dove pitṛyā́ṇa- è probabilmente da leggere pitriy°).

97. Un altro trattamento di fine di parola è la perdita del secondo elemento del gruppo -ai -au, ridotto di conseguenza a ā: ciò si presenta nel N. sg. sàkhā 266; parzialmente nel L. sg. dei temi in -i- (-u-) e nel N. Ac. duale animato (121 n. 236). Sulla finale -ā al perfetto, 3° sg. attivo, delle radici terminate in -ā-, v. 335.

Il trattamento, -ā si estende davanti alla desinenza -m nelle forme rā́m gā́m dyā́m 261 sq.; cf. 28 fine.

Bisogna collegare a questo trattamento il caso delle finali attese -ār e -ān, che sono anch’esse rappresentate da un semplice -ā nel N. sg. (animato) dei nomi in -(t)- 252 e in -an- 250 (eventualmente, nel N. Ac. pl. nt. dei nomi in -an- ibid.). Le finali di N. sg. -vān -mān dei derivati in -vant- -mant- sono state protette dalla presenza antica dell’occlusiva finale.

  1. Un’altra abbreviazione nell’infinito gamádhye 372; davanti a una -t finale in ajayit TS. di JI- (per *ajayīt), ma la forma attesa è *ajait [in realtà, *ajais] di cui ajayit è una distorsione (4 n. 2) e potrebbe aver causato dhvanayit 358. Al contrario, le finali in -ait 28 n. 2; -ām finale e talvolta -ās (davanti a iniziale consonantica), al posto di -am (-as) nella Kap.
  2. È un trattamento di fine di parola se la soluzione -ā ha prevalso sulla soluzione -ān nel tipo jā́s jā́m “creatura”, come grado debole delle formazioni in -ani-? È piuttosto la soluzione normale (23) e del resto la più facile.

98. Consonanti. — L’occlusiva sorda (non aspirata) è il rappresentante dei quattro modi articolatori, anche se Gārgya nel RPr. insegna la sonora. Così triṣṭúp rappresenta il tema triṣṭúbh-, n. di un metro. L’aspirazione perduta si trasferisce eventualmente sulla consonante anteriore secondo 47 49.

Mantenimento dell’aspirata nel membro anteriore, in yudh° (VII 18 24, molto incerto) e probabilmente in nábhrāj- MS. “re delle nuvole”.

Non c’è geminazione secondo 17, tranne che in APr. secondo il quale bisognerebbe pronunciare triṣṭúpp (III 26). Per quanto riguarda i luoghi di articolazione, il trattamento è più complesso. Prima di tutto, le occlusive sono descritte come “schiacciate”, cioè ridotte all’implosione (abhinidhāna 14).

99. Inoltre, nessuna palatale appare in fine di parola, poiché in virtù di 51 la palatale è un’alterazione della gutturale di fronte a un fonema “palatalizzante”. Quindi si ha k per rappresentare c j o h, così arvdā́k da arvā́ñc- “qui, da questa parte, nei pressi, vicino “, ádhok (imperfetto 3a sg.) da DUH-. Nella serie 55, è la cerebrale () che prevale come rappresentante di ś j o h, così come di , ad esempio nelle finali (poco numerose in totale) N. sg. víṭ da víś- “clan”, ṣā́ṭ da °sā́h- “che sconfigge”, °dvíṭ da °dvíṣ- “che desidera il male”, 3a sg. áprāṭ da PṚŚ-. A dire il vero qui ci si poteva aspettare la gutturale (secondo 59) quando si aveva di fronte una desinenza -s (caduta 103): ovvero, al N. sg. animato e alla 2a sg. dei tempi secondari. Ma la cerebrale era al suo posto davanti a una t (quindi alla 3a sg.) e inoltre permetteva una migliore differenziazione delle forme. Così che la gutturale è stata esclusa, tranne in alcune forme contenenti una r (ṛ) dove ha prevalso la preoccupazione di evitare una sequenza di fonemi cerebrali: °spṛ́k (N. sg.) da spṛ́ś- “che tocca”, ásrāk (3a sg.) da SṚJ-, e anche prá ṇak da NAŚ- 2 di fronte a ā́naṭ; così in dadhṛ́k (m. e nt.) da dadhṛ́ṣ- “audace” e probabilmente in piṇák (2a e 3a sg.) da PIṢ- 65.

  1. °dvíṭ e dadhṛ́k sopra citati sono le uniche parole con finale -, insieme a viprút (es. corretto) AS. XX da viprúṣ- 55 (e cf. 1. pl. viprúḍbhis 136). Nell’avverbio sajū́s (o sajū́r, ū secondo 37), il nome-radice júṣ- è trattato come se la finale fosse -s; lo stesso per VIṢ- nelle 2a 3a sg. (á)vives, comparate alla 2a sg. vivekṣi: queste forme tradiscono l’influenza delle numerose finali in -is -us.
  2. Alla fine di un membro anteriore, ś si mantiene nel termine tradizionale viśpáti- “capo di clan”, da cui deriva, davanti a vocale, viśaujas- 158.

100. Per dissimilazione, si ha il N. paṣṭhavā́t TS. “(animale) nel suo quinto anno” (da °vā́h cf. 59) e (davanti alla desinenza -su) anaḍút 55. Dissimilazione anche in saṃsṛ́d (davanti alla desinenza -bhis, cf. 68 b) per saṃsṛ́p- YV. nome di divinità. La forma insolita anuṣṭúk per anuṣṭúp- nome di un metro è anch’essa dissimilatoria: compare davanti a un p- TS. V 2 11 a (inversamente triṣṭúg TS. IV 3 2 b compare davanti a un g-) e cf. 260. Questi fatti sembrano indicare una certa indifferenza nella posizione di una occlusiva in fine di parola: questa indifferenza, unita all’occorrenza a fatti di analogia, spiega ancora sāviṣak AS. VSK. per sāviṣat VSM. di - (cf. lo scambio t/k in certe finali nominali 277 o avverbiali 391).

  1. Davanti alla desinenza -su: pṛk-(ṣú) SS. da prt- “combattimento”; inversamente prayát(su) TS. per prayákṣu AS. da prayáj- “offerta”. Scambio d/r in upadambhṣar MS. (anche °ṣag Āp., °ṣad altrove) da DAMBH-, atārīr TB./ atārīd RS. I 32 6, etc. Cerebrale espressiva in váṣaṭ e analoghi 392.
  2. Perdita di una gutturale finale in sabardhú(m) (per °dhuk) “che si lascia mungere sempre”; ásmṛtadhrū “che non inganna l’attesa” (? Sani: che non si preoccupa dei nemici - RV) è spiegabile da DRUH- o da DHRU-. Perdita della cerebrale nel N. puroḍā́s, da puroḍā́ś- “torta” (analogia delle finali in -as; da qui l’introduzione di in controparte del finale scomparso). Perdita della dentale, nel N. sadhamā́s, da sadhamád- “che beve assieme”, e forse ṛṇayā́s da °yā́t “che fa rientrare il debito”.

101. Le nasali si conservano di principio. Si considerano solo le nasali n e m, poiché le altre sono condizionate dal fonema seguente (5); tuttavia appare in finale in alcune forme come sadṛṅ “dello stesso aspetto” (=*sadṛṅk 103) N. sg. di sadṛś-, probabilmente secondo il tipo pratyáṅ 259. La nasale dentale sfugge alla cerebralizzazione attesa da 64: ad esempio -rán di RAN-, mṛnmáya- 215 “di argilla” (caso raro); tuttavia la MS. offre (davanti a vocale) trī́ṇ e akṣā́ṇ (in base a trī́ṇi, akṣā́ṇām). La nasale n si sostituisce a m (secondo 66) nei casi (rari) in cui una m finale di radicale era seguita da una desinenza dentale (-s o -t) caduta secondo 103: così ájagan (2a e 3a sg.) da GAM-, dán (=*dam-s) da dám- “casa” RS. I e X (pátir dán = dáṃpati-, e asyádán 1 153 4); forse nella desinenza 3° pl. -ran (< -ram-s o da -ran-t?), usata alla pausa o davanti a occlusiva, che ha come doppietto più raro (davanti a vocale e v-, ai Libri I IX X) -ram 309 secondo gli scambi -an / -am già menzionati, ai quali si aggiungono le false radici ran- dan- (I 174 2) introdotte al posto di RAM- DAM-.

  1. Le terminazioni pronominali yásmin tásmin hanno probabilmente una -n posticcia; in túbhyam “a te” e máhyam “a me” il finale m è mobile come indicato dal ripristino frequente di túbhya (per altro attestato qua e là nel RS. davanti a vocale) e *mahya, anche davanti a consonante, per ragioni metriche. Possibilmente anche -dhva per -dhvam 324. Sul caso di asmā́ka(m) yuṣmā́ka(m), vedi 132 n. 1.
  2. Confusioni -m/-n soprattutto nell’AS., vedi II 29 3 c V 19 2 c VI 99 2b VIII 2 17 c XVIII 2 20 c XIX 28 3 d.

102. y e v compaiono solo secondariamente (sotto l’effetto del saṃdhi) alla finale (pronuncia, v. 7 n. t); l non vi figura mai; r, che è piuttosto raro alla fine delle parole, passa a visarjanīya (), così come s (inclusa la s che dovrebbe essere cerebrale secondo le leggi interne 63), che è invece molto frequente in finale. Quindi si ha púnaḥ da púnar “di nuovo”, mánaḥ e havíḥ da mánas- “pensiero” e havís- (havíṣ-) “offerta”. r si comporta quindi come un equivalente di s, in altre parole, il passaggio a deve essere avvenuto attraverso *z (s sonoro). In ogni caso, questo è il trattamento che meglio sottolinea l’indebolimento articolatorio caratteristico della posizione finale.

Per un trattamento t (ṭ) di -s finale, vedere 72 n. 1.

103. Gruppi di consonanti. — I gruppi si mantengono solo se l’occlusiva che ne forma il secondo elemento (praticamente si tratta di -rk -rt) appartiene al radicale, ad esempio várk da VṚJ-. Un’eccezione è avarīvar (da cui il pl. avarīvur, per aplologia) da VṚT-, dove potrebbe aver agito l’influenza di VṚ- 1; un’altra eccezione è suhā́r MS. da suhā́rd- “amico” (davanti a naḥ scritto ṇaḥ): ma suhā́rt AS., dove peraltro i manoscritti hanno generalmente suhā́t (davanti a t-). In tutti gli altri casi, che costituiscono la grande maggioranza, il secondo elemento cade (sul caso di -[k], vedi 66 n. 1), e i due ultimi nel caso di tre consonanti. Così scompaiono dopo una consonante la -s del N. sg. animato, la -s della 2a sg. secondaria, la -t della 3a sg. secondaria, le finali nominali e verbali a -s o -t precedute da consonante. Ma la scansione lunga di kar, aoristo di KṚ-, attesta il mantenimento oscuro di un antico -rt (-rs, sotto forma di -rr?), anche se la consonante finale è desinenziale; dárt, 2a o 3a sg. aoristo di DṜ-, è dovuto all’analogia di (a)vart da VṚT-.

  1. Per ragioni di simmetria, la desinenza della 3° sg. -t è stata ripristinata al posto di -s(t), sia dove s era affissale (acait*acai-s-t da CI-1), sia dove era radicale (aghat Kh. 144, 147,150, aoristo di GHAS- con possibile intervento di 74); analogamente, -r(t) porta a t in ā́dat V 32 8, aoristo di DṜ- (non di -). Parallelo a questo, alla 2° sg. dei tempi secondari, -k(s) dà -s in ábhanas AS., da BHAÑJ-; così -(s) in ayās da YAJ-; infine -kṣ(s) in srās AS. (aoristo sigmatico) da SṚJ-. Ma altrove la finale rimane ciò che foneticamente dovrebbe essere.
  2. In nomi (-radici), -s per -ṃs (derivante da ns) in mā́s- “mese” e mā́s- “carne” (paragonati a forme indiane o extra-indiane in nasale + s) può riflettere un diverso grado di alternanza, cfr. 258 c. A questo proposito si può ricordare il caso di mandhātṛ́- 20 accanto a me-dhā́- 27.

104. Divisioni errate delle parole. — L’interpretazione e soprattutto il confronto delle “varianti” rivelano abbastanza frequenti divisioni errate delle parole nel testo scritto: errori che testimoniano il carattere continuo della dizione e la natura secondaria della scrittura. Oltre al caso di uloká- 8, si possono segnalare ca rátham I 70 7, da leggere come carátham; duchúnā minavāma V 45 5, da leggere come duchúnām i°; agnér áveṇa 1 128 5, da leggere come agné r°; va X 29 1, da leggere come vāyó (con il Nir.); mā́ sakṛ́t I 105 8 è stato letto come māsa° Nir.; sīmatáḥ NN., sīm atáḥ ivi. Infine máno rúhāṇā(ḥ) probabilmente si deve dividere come mánor ú° I 32 8. Altri esempi si trovano nei mantra tardivi, dove i fenomeni di questo tipo abbondano.

È stato discusso se íṣ-KṚ- “predisporre, preparare” sia una mutilazione di níṣ-KṚ-, facilitata da una forma ambigua come ániṣkṛta-? Allo stesso modo, iṣídh- 45, iṣṭáni- per *niṣṭáni- “che si estende” (?). Inversamente, niṣṭyā KS. per iṣṭyā X 469 2.

105. Finali sincopate. — I progressi nell’interpretazione hanno portato a un parziale abbandono della credenza nelle finali sincopate. Tuttavia, rimangono ancora diversi casi in cui, fino a nuove informazioni, si ammetterà ancora che una sillaba terminale (di un sostantivo, non di un verbo!) è caduta, specialmente alla fine di un pāda: come sā́nu IV 55 7, apparentemente per sā́nuni, o mā́nuṣā II 2 9 per mā́nuṣāṇām, iṣṭé I 143 8 e VI 8 7 per iṣṭébhis. Quest’ultimo caso è il più sicuro: si tratta di una sequenza di finali in -bhis, interrotta da una riduzione che mira a risparmiare una sillaba: si può considerare che si tratti di una aplologia a distanza. Allo stesso modo in triṣv ā́ rocané I 105 5 “nei tre spazi luminosi”, svayaśóbhir ūtī́ I 129 8 “con aiuti che di per sé mantengono il loro splendore”, návyasā vácas (passim) “di un’espressione nuova”. Il movimento si sarebbe diffuso da lì ad altri casi come váyas VII 97 1 per váyase, rā́dhas 119 4 per rā́dhasā, stavā́n passim (per stavā́naḥ?), o a giunzioni dove la forma sincopata precede la forma piena, devá ā́ mártyeṣv ā́ VIII 11 1 “tra gli dei e i mortali” (contestato).

Incerto il caso dell’avverbio mahás “potentemente” che potrebbe sostituire *mahase, ecc.; e quello di nṝ́n (Ac. pl. di rṝ́- “uomo”) che è polivalente e figura in particolare dove ci si aspetterebbe il G. pl. nṛṇā́m (’nṝṇām).

L’aplologia spiega alcuni fatti (nota 1 di 77 e 464), la sintassi di altri (I 37 14 citato in 396). Potrebbe aver agito anche la presenza di doppiette desinenziali come -ā/ -āni, -ās/ -āsas, la flessione a volte non evoluta dell’epiteto nt., ecc. Non si incontrano molti fatti di qualche probabilità dopo la RS. (si citi jīvan per jīvantī MB. I 1 6).

106. Monosillabi. — Se le parole brevi abbondano negli elementi invarianti, nei pronomi e nelle parole accessorie, sono relativamente evitate nelle forme nominali e verbali. Da qui, in particolare al N. sg., l’uso frequente di un suffisso di ampliamento; da ciò anche la presenza dell’aumento, che serve evidentemente solo ad arricchire una forma verbale. Gli aoristi bhúvas bhúvat ábhūt, ecc. duplicano così vantaggiosamente bhū́s e bhū́t di BHŪ-; dúr di - è eccezionale (dā́m dā́s dā́t essendo protetti dal dissillabismo frequente, secondo 29), come sthā́t di STHĀ- o gmán e soprattutto gan di GAM-, ecc. Altri monosillabi si sono tuttavia mantenuti bene e la tendenza complessiva non è molto marcata.

107. Inizio della parola. — Non c’è quasi nessuna caratteristica distintiva dell’iniziale, se non lo sviluppo occasionale di una semivocale o nasale: iy- uv- an- (am-) ir- (ur-) secondo 32-37; la mobilità di un s- davanti a occlusiva secondo 70; un allungamento come in ānuṣák “in sequenza”, o la perdita di y all’inizio del secondo elemento (dopo una vocale) in práuga- “parte anteriore di un carro”.

Non ci sono geminate iniziali, eccetto, teoricamente, quelle secondo 17. Cfr. infine i fatti richiamati sotto 123.

108. Variazioni quantitative. — Si trovano in fine parola una serie di vocali brevi allungabili, come esiste all’interno della parola secondo 41, ma i casi qui sono molto più numerosi e anche più spesso segnalati nel testo scritto, anche se senza rigore. Sono altresì meglio distinti dalle condizioni foniche. Questi allungamenti (cfr. il termine di sāmavaśa dei Pr.) potrebbero essere considerati come fatti di saṃdhi in senso lato, poiché non si incontrano alla pausa (né, salvo eccezione, alla fine del pāda dispari) e sono in gran parte comandati dalla struttura dell’elemento seguente: la presenza di due consonanti o eventualmente di una sillaba pesante. Il principio è infatti ritmico (nelle condizioni dette 41), ma alle esigenze del ritmo si sono aggiunte delle licenze poetiche ispirate da semplici vantaggi metrici. Queste licenze stesse hanno potuto appoggiarsi sull’esistenza antica di dopiette autentiche: poiché, se alcune finali sono ribelli a ogni allungamento, altre esprimono possibilità semantiche doppie (così gli avverbi in -tra e quelli in -trā 389) o più spesso morfologiche (finali -a -i-u di N. Ac. pl. nt. accanto a -ā -ī-ū). Il posto del verso ha un’importanza evidente: le varie finali si comportano diversamente nei medesimi posti, i diversi posti utilizzano diversamente una stessa finale: il posto privilegiato per l’allungamento essendo il sesto degli ottosillabi, l’ottavo e il decimo degli endeca-(dodeca-)sillabi. Inoltre, le vocali allungabili sono lunghe al secondo posto davanti a una terza sillaba leggera, brevi davanti a una pesante.

109. Andando oltre le indicazioni del testo scritto, si possono stabilire le seguenti categorie: a) sono spesso (o molto spesso) lunghe le desinenze verbali in -sva, in -ma (soprattutto al perfetto), alcune particelle come evá, gha, átha; b) lunghe o brevi a seconda delle convenienze, l’imperativo in -a (desinenza zero), le finali verbali in -ta, -tha e -tana, -thana, la particella sma; c) piuttosto brevi le particelle nu, su, così come e u isolati (ma nahī́ nú, ū ṣú e simili); gli avverbi dissillabici in -u; gli invarianti adyá, ádha, yádi; d) soprattutto brevi gli imperativi in -dhi, -hi, tranne śrudhī́, śṛṇudhī́ di ŚRU- e alcuni altri, arbitrariamente; i casi diretti del neutro dei nomi in -an-; l’I. sg. in -ena; e) brevi salvo eccezioni il G. sg. -asya, il L. sg. -i (tranne il tipo tan(ú) 265), la 3° sg. del perfetto in -a, il V. sg. in -a; f) non si allungano mai le finali verbali in -i (diverse dall’imperativo) e in -u, tranne l’hapax rakṣatī II 26 4; il D. sg. in -āya; l’enclitica debole iva e diverse forme analoghe (ma cfr. gha sopra a). In generale, gli invarianti sono i più variabili, il verbo è più variabile del nome, probabilmente perché le finali verbali contengono una proporzione maggiore di antichi invarianti.

Le finali di assolutivo in -(t), l’I. sg. in -, la particella áchā, pur presentandosi in condizioni apparentemente simili a quelle sotto a, sono in realtà casi di lunghezza normale, linguisticamente giustificabile, e suscettibili di abbreviazione in posizione ritmica favorevole o indifferente (- alla fine di pāda 271). Bisogna distinguere l’abbreviazione in caso di iato 115 sqq.; e quella di un -ā, -ī del V. du., 236 e 267.

110. Dopo la Ṛgveda Saṃhitā (RS.), i fatti scompaiono o diventano difficilmente discernibili. Si va verso uno stato stabile della finale, fissata in generale nella forma breve, che sin dall’origine il padapāṭha (pdp.) ripristina normalmente. Non è certo che si debbano riconoscere delle quantità intermedie (“quasi brevi”, “quasi lunghe”, ecc.) che finirebbero per legittimare linguisticamente in qualche modo ciò che è solo una somma di tendenze poco coerenti da parte dei ṛṣi. Nella composizione, c’è un allungamento alla fine del primo elemento, in condizioni intermedie tra quelle qui descritte e quelle sotto 41; cfr. 165. Nella derivazione secondaria, 215.






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