sanscrito vedico

il verbo - generalità



301. Radice. Alternanze vocaliche. — Il verbo si definisce innanzitutto dalla radice: alla radice si aggregano una serie di elementi che notano, direttamente o indirettamente, tempo e modo, persona e numero, voce, tipo di formazione. Questi sono, da sinistra a destra: a) degli elementi anteposti che si chiamano aumento e raddoppio; b) degli elementi postposti, affissi formativi (che giocano un ruolo analogo a quello che giocano i suffissi nel nome), eventualmente vocale tematica, affisso modale, infine desinenze. Questi elementi, ad eccezione, in una certa misura, del raddoppio e degli affissi formativi, hanno strutture proprie al verbo, dalle quali possono passare qua e là ai nomi verbali.

La radice è costituita praticamente da una consonante (eventualmente due) seguita (allo stato “ridotto”) da una vocale breve, la quale può ancora essere seguita da una consonante (occlusiva o sifflante); ci sono anche un piccolo numero di radici a iniziale vocalica, altre a vocale lunga o (raro) a dittongo (-e - o): queste ultime sfuggono a qualsiasi alternanza (eccezione: HĪḌ- e alcune rare forme di radici in -īv- 69 n. 2).

La teoria conosce anche radici composte da due sillabe, come jāgṛ- “svegliarsi”: in realtà, la definizione della radice è tutta empirica: è la porzione del verbo che precede affissi o desinenze.

Le alternanze vocaliche comportano un grado pieno o guṇa (più raramente un grado lungo o vṛddhi) e un grado ridotto (più raramente un grado pieno): talvolta si verificano tra la voce attiva e la voce media, talvolta (più spesso) tra il singolare (dell’indicativo [e dell’ingiuntivo] attivo) opposto al resto della flessione, participio incluso: comunque il congiuntivo generalizza normalmente il grado pieno in tutto il paradigma, e l’imperativo attivo lo conosce alla 3ª sg. (attivo). Le fluttuazioni sono comunque abbastanza considerevoli in questa ripartizione. L’elemento vocalico interessato è, come nel nome, l’elemento predesinenziale: la radice là dove non c’è un affisso formativo; l’affisso (in realtà: l’affisso nasale del presente) là dove ce n’è uno. L’affisso modale (in realtà: quello dell’ottativo) ha la sua alternanza indipendente.

302. Le basi di alternanza sono di solito e/i(ai), o/u (au), ar/ṛ (ār), an/a [o an/n] (ān) — i gradi pieni possono interessare le forme “invertite” ya va ra (na) —. Si trova anche traccia di a/zero, infine, almeno in apparenza, di ā/i (22 b et n. 2). Le alternanze dette “dissillabiche” 23 25 26 (proprie delle radici “pesanti”) manifestano i loro effetti, al grado ridotto, dalla presenza di un vocalismo lungo (ī, ū, īr o ūr secondo 26, ā o ān); al grado pieno, dall’aggiunta di un -i-.

Questo -i-, tendente fin dall’inizio ad assumere un carattere inorganico, è diventato quello che si chiama la “i di collegamento”, elemento predesinenziale o preaffissale (situato soprattutto davanti a un -s-, a volte altrove; davanti a un -t- soprattutto nei nomi verbali), con una distribuzione incerta. Il ricordo della vecchia distribuzione sopravvive solo nel fatto che le antiche radici “leggere”, quelle in particolare che terminano al grado ridotto con -i -u- ṛ- -a- (derivato da nasale), si astengono dal contenere questo -i-. -i- è lungo in alcune forme sparse (e inoltre, in modo stabile sebbene secondario, nelle finali 2a 3a sg. -īs -īt: quindi, molto meno spesso che nei derivati primari 190.

Sebbene più variate che nel nome, le alternanze sono complessivamente meno stabili; ci sono confusioni, sovrapposizioni piuttosto numerose; casi di alternanza incompleta, come per la radice ŚĀS-. La situazione riflette solo in modo poco fedele quello che si sa dello stato di cose preistorico.

Come nel nome, le formazioni tematiche, che sono numerose e in costante progresso (almeno nel sistema del presente 311 fin.: accessoriamente all’aoristo asigmatico e al perfetto), sono totalmente prive di alternanze. Il grado è talvolta pieno, talvolta ridotto: sempre ridotto quando c’è un affisso (tranne -sy- del futuro, -áy- del causativo). Nelle formazioni atematiche con affisso, l’elemento radicale è anch’esso immobile davanti all’affisso alternante, e rimane al grado ridotto: anche qui l’-s- dell’aoristo non conta come affisso.

  1. Gradi pieni senza significato morfologico definiscono alcune desinenze (cfr. -ti- /te) e alcuni raddoppiamenti (intensivi).
  2. Più spesso che nel nome, si stabilisce per una -a- radicale in sillaba leggera un allungamento ritmico destinato a bilanciare il peso delle formazioni correlate: cfr. 44.
  3. Allungamenti frequenti della vocale finale (tematica o desinentielle) secondo 109. D’altra parte, si trova traccia, nella porzione “affissale”, di un aggiustamento quantitativo che porta a una nuova alternanza ā/ī.

303. Voce e modi. — La voce è indicata in primo luogo dalle desinenze, che comprendono una doppia serie: desinenze attive (più leggere), desinenze medie. Le due serie si presentano nella maggior parte delle formazioni, tuttavia il “passivo” comprende solo la serie media.

  1. Ci sono casi di indeterminazione, almeno come sopravvivenza: così la 3a pl. in -ur (almeno al perfetto) può rappresentare una desinenza media, tipo vāvṛdhúr “sono aumentati” da VṚDH- = 3a sg. vāvṛdhé. È l’adattamento alla voce attiva di una finale -r indifferenziata, che, per la voce media, sarà stata secondariamente precisata in -(i)re, ecc.
  2. l carattere medio (medio-passivo) è passato eccezionalmente a una finale (non desinenziale), quella in –(á)dhyai 372.

Le desinenze medie sono meno produttive nel complesso (proporzione 1 : 3) e raramente, per un verbo dato o per una formazione data, sono l’esatta controparte delle attive: si sono create delle abitudini (indipendentemente dalle convenienze semantiche), come la tendenza al medio nelle strutture tematiche (sácate in confronto a síṣakti da SAC-, jíghnate/hánti da HAN-; notevole estensione della finale 3a pl. -anta). Molti verbi hanno solo l’attivo: alcuni, solo il medio.

Il modo, la cui notazione è contribuita dall’affisso modale o dalla vocale tematica (indirettamente anche dalle desinenze), comprende l’indicativo, caratterizzato dall’assenza di ogni affisso; il congiuntivo che segnala la vocale -a- (-ā- alle prime persone) — identica e sovrapponibile alla vocale tematica —:

Da cui, per contrazione, -ā- al congiuntivo tematico e, per analogia, -ā- occasionalmente (314 320 323 336 355) al congiuntivo atematico stesso.

l’imperativo, che si differenzia per la forma dell’alternanza e alcuni tratti inscritti nelle desinenze; l’ottativo, che possiede un affisso ī, che, nei sistemi alternanti, varia con yā́ (secondo 25) (yā́ all’attivo, ī al medio).

L’ingiuntivo si definisce negativamente: è un indicativo privato delle desinenze primarie e privo di aumento: la sua inclusione in tale o tal altro sistema verbale appare secondaria e, almeno in parte, arbitraria. Dal punto di vista delle alternanze, segue interamente l’indicativo.

Infine, il participio è una forma nominale, con un suffisso di tipo nominale e una flessione casuale, che tuttavia si attacca rigorosamente a un tema verbale e si comporta come una forma personale, eccetto per quanto riguarda l’accento. Vi è qua e là traccia di una certa autonomia del participio, specialmente del tipo in -āna-.

Tutti questi modi sono attestati in modo variabile a seconda delle formazioni. L’indicativo domina largamente; poi l’imperativo e il congiuntivo; l’ingiuntivo; l’ottativo è il più raro.

304. Aumento. — L’aumento contribuisce a notare i tempi “secondari” (quelli dotati di desinenze secondarie 308): imperfetto, trapassato prossimo, aoristo. Consiste in una a (tonica!) prefisso alla radice (al raddoppio, se c’è raddoppio).

Questa á appare come lungo in alcune forme (in parte concorrentemente a a breve) che iniziano con v- o (solo in YUJ-) con y- e (solo in RIC-) con r-, es. ā́var aor. di VṚ- 1: l’allungamento è quindi nelle condizioni generali ricordate 42; quello che si ha in ā́nat di NAŚ- 2 può essere stato influenzato dalle forme in ānaś- di AŚ- 1, stesso significato. Un altro effetto dello stesso allungamento è la soluzione per aí- aú- (eventualmente ā́r-) nelle radici che iniziano con i- u- (ṛ-), es. aichas 28 n. 1 29 n.

L’aumento manca molto spesso, lo farebbe ancora di più se non ci fosse il bisogno di evitare le forme verbali monosillabiche 106. In realtà le forme non aumentate, soprattutto nella RS. antica, superano quasi ovunque in numero le forme con aumento. L’aumento le canalizza verso l’espressione netta del preterito, l’assenza di aumento permette di conservare un valore indifferenziato, quello di un presente “generale” o di un eventuale (ingiuntivo).

Dopo la RS., rimangono senza aumento solo le forme che fin dall’origine erano necessariamente prive di esso, ovvero gli aoristi (eventualmente, imperfetti) proibitivi 431.

305. Raddoppio. — Proprio di alcune formazioni di presente e di aoristo, così come dei perfetti (tranne rare eccezioni), desiderativi, intensivi, il raddoppio consiste nel ripetere davanti alla radice la consonante iniziale seguita da una vocale di supporto: questa vocale o imita il timbro radicale (quando questo timbro è i o u) o è un a (vocale indifferenziata); una leggera sfumatura di valore può essere attribuita alla scelta tra a e i (u). Quanto alla consonante raddoppiante, la sua natura è soggetta ad aggiustamenti fonetici: una gutturale del radicale raddoppia in linea di principio con la palatale corrispondente 52, un’aspirata con la non aspirata 50 (h per j: combinazione delle due tendenze precedenti); infine una sibilante seguita da occlusiva, dalla sola occlusiva (cfr. 70). Ma ci sono abitudini particolari, in particolare nel raddoppio dissillabico (intensivo).

  1. Le tendenze ritmiche, l’analogia, occasionalmente il bisogno di insistenza, hanno provocato una vocale lunga al raddoppio (non intensivo): vāvṛdhé di VṚDH- in confronto a vavárdha; nānāma di NAM-, pdp. nanāma, non può essere ritmico né analogico. Tipico è l’allungamento di i u all’aoristo raddoppiato 342. Il testo trasmesso è su questo punto in generale conforme alle convenienze metriche.
  2. Le radici a vocalismo -yu- esitano tra la soluzione i e u, es. cicyusé / cucyuvé di CYU-. Altra esitazione, nelle radici a vocalismo (generalmente iniziale) ya- va-, tra il timbro a e il timbro i (u).

306. Sistemi verbali. — Il verbo è organizzato in sistemi all’interno dei quali la struttura è coerente; essi sono indipendenti gli uni dagli altri, nel senso che ciascuno di essi si riferisce alla radice e, salvo casi particolari, non tiene conto del modo in cui si forma il sistema adiacente. Il più completo, il più produttivo di gran lunga, è il sistema del presente, che comprende tutti i modi, così come un preterito (fatto sul modo indicativo), detto: imperfetto. I sistemi chiamati “derivati” o “deverbativi” (causativi e altri) sono aspetti particolari del sistema del presente; allo stesso modo i denominativi. Gli affissi del presente sono vari, l’unico davvero stabile e l’unico suscettibile di alternanze è l’affisso in -n-.

Il sistema dell’aoristo (caratterizzato parzialmente da un affisso -s- non alternante), che non ha altro indicativo che un tema a desinenze secondario, comprende solo tracce di forme extra-indicative (compreso un ottativo a certe finali aberranti costituenti quello che si chiama il “precativo”); molte forme non possono essere classificate con certezza come imperfetto o come aoristo. Il sistema del perfetto (senza affisso) ha anche forme modali, relativamente poche e mal caratterizzate, così come un preterito (trapassato prossimo).

Esiste infine un futuro (affisso -sy[a]-) e l’abbozzo di un passivo (affisso che non sono che dei presenti specializzati.

307. Desinenze. — Esiste una serie “primaria” (che caratterizza, in primo luogo, il presente dell’indicativo) e una serie “secondaria”, propria delle forme aumentate 304, modali o eventuali. Il congiuntivo tuttavia partecipa a entrambe le serie, essendo primario alla voce media (tranne la 3a pl. che è in -anta e ha sostituito la forma ambigua -ante, molto raramente attestabile come congiuntivo), misto alla voce attiva (da una parte -va -ma -an, dall’altra -thas -tas-tha: quindi le finali in t- sono “primarie”).

Praticamente, la fluttuazione si limita alle 2a e 3a sg. dove -s e -t alternano con -si e-ti, le finali lunghe prevalendo nelle formazioni tematiche, le corte nelle atematiche, perfetto incluso. Il congiuntivo ha una finale speciale alla 1a sg. (attivo), cioè -ā (almeno nella RS.; non sicuramente abbreviabile) e -āni (più frequente, prevalente nelle formazioni tematiche e unico usato dopo la RS.). Al medio la finale usuale -e si combina con la vocale modale in -ai alla 1a pers., da cui, per analogia, 2a sg. -sai 3a -tai 1a du. -vahai 1a pl. -mahai 2a -dhvai 3a -antai; molte di queste estensioni sono rare, la maggior parte manca nei mantra più antichi. Alle 2a e 3° du., le finali sono -aithe -aite (che possono rappresentare a + īthe īte, cioè lo stesso aspetto desinenziale che nei presenti tematici 308 n.). All’aoristo e al perfetto, dove il valore congiuntivo è debole, la forma in -e si mantiene, in particolare alle finali -se -te.

Altri aggiustamenti avvengono all’imperativo 309; infine il perfetto (indicativo) possiede, almeno alla voce attiva, un sistema di desinenze completamente nuovo 335.

308. Le desinenze primarie comprendono, alla voce attiva, sg. 1ª pers. -mi 2ª -si 3ª -ti. Al duale, 1ª pers. -vas (inusitato nella RS.) 2ª -thas 3ª -tas. Al plur., 1ª pers. -masi o -mas (i “deittico”; -masi è cinque volte più frequente di -mas nei mantra antichi, ma declina rapidamente in seguito), 2ª -tha o -thana. (particella -na che si ritrova 322; -thana sei volte meno frequente e raro dopo la RS.), 3ª -anti (-nti dopo le basi tematiche secondo 21, il che dà lo stesso risultato; -ati nelle basi a raddoppio e alcune altre).

Alla voce media, il timbro finale è -e, che dà al sing., 1ª pers. -e 2ª -se 3ª -te (tracce di una 3ª in -e nelle formazioni atematiche, per probabile influenza del perfetto). Al duale, 1ª -vahe 2ª -āthe (a volte da leggere -athe) 3ª -āte. Al plur., 1ª -mahe 2ª -dhve 3ª -ante (-nte come all’attivo corrispondente; -ate come all’attivo e oltre, cioè nei tipi atematici in generale).

Sul carattere eventualmente pragṛhya di -e, v. 122.

La serie secondaria, di aspetto più breve in generale, dà per la voce attiva, al sing., 1ª pers. -(a)m 2ª -s 3ª -t. Al duale, 1ª -va 2ª -tam 3ª -tām. Al plur., 1ª -ma 2ª -ta (più raramente -tana, che diventa raro dopo la RS.) 3ª -(a)n (= ant 127) (-ur all’ottativo, all’aoristo atematico e talvolta altrove ancora 311, cfr. 96).

Sulla tendenza a mantenere, nonostante le alterazioni fonetiche, la distinzione tra 2ª e 3ª sg., v. 103. Tendenza inversa al precativo 348.

Infine, alla voce media: al sing., 1ª -i (-a nell’ottativo, cfr. 311), 2ª -thās 3ª -ta; al duale, 1ª -vahi 2ª -āthām (a volte da leggere -athām) 3ª -ātām; al plur., 1ª -mahi 2ª -dhvam (una volta -dhva 324) 3ª -(a)nta (con le stesse fluttuazioni di cui sopra -[a]nti). Esiste una finale propria alla 3ª sg. dell’aoristo “passivo”.

I doppioni sono meno numerosi che nel nome, meno stabili; le innovazioni delle formazioni tematiche, contrariamente a quelle del nome, insignificanti.

  1. Notare tuttavia l’esito -ethe -ete (-ethām -etām) del duale medio tematico (coniuntivo incluso 307 n.): quindi una iniziale desinenziale ī-, in alternanza con l’iniziale ā- delle forme atematiche corrispondenti.
  2. Sull’allungamento di alcune finali, v. 109 (rakṣatī ibid. f).
  3. Una (dubbia) finale -madhi sarebbe preservata VII 48 24 in una forma verbale apparentemente impiegata come n. proprio.
  4. Il contatto tra la vocale tematica e l’iniziale vocalica di una desinenza è evitato dall’adozione di un’iniziale nasale (-m al posto di -am, -n[ti] al posto di -an[ti]), là dove un doppio fonetico era possibile. La contrazione ha luogo solo nella finale citata -ai della 1ª sg. e nella rarissima finale -e della 1ª sg. attivo secondario (= -ā̆ + i), così come nella forma isolata atītape 350.
  5. Inserimento di -y- (come nel nome 190), 311 (ottativo) 350 (aoristo passivo), cfr. 69.

309. L’imperativo amplia con un timbro u (ortativo, cfr. le particelle u nú sú tú) le finali di 3ª sg. e 3ª pl. della serie secondaria: quindi, 3ª sg. -tu 3ª pl. -antu (-ntu - atu secondo la stessa ripartizione di - anti). La 3ª sg. medio è in -tām, la 3ª pl. in -[a]ntām. Infine e soprattutto le due finali essenziali di 2ª sg. sono, all’attivo -hi (-dhi: ripartizione data 58; desinenza zero 311): al medio -sva (allungabile cfr. 109). Le prime persone dell’imperativo sono fornite dal congiuntivo.

Una particella (pronominale?) -tāt si aggrega qua e là alla 2ª sg. dell’attivo (nei sistemi del presente); eccezionalmente il valore è quello di una 3ª sg., di una 2ª du. e (dopo la RS.) di una 4ª sg. o infine di una 2ª pl., il che risponde bene all’indeterminatezza “personale” del procedimento. Si ha -tāt al medio paipp. XIX 23 7; -dhvāt (rifatto da -dhvam) in un yajus = Kh. p. 454.

L’ottativo ha per peculiarità, oltre alla 3ª pl. attivo in -ur e alla 1ª sg. medio in -a 308, una 3ª pl. medio (rara) rifatta secondariamente, sia in -ran, sia in -rata.

Altre finali a base -r- si ritrovano sporadicamente in alcune 3ª pl. medio in -re o -rate di presenti radicali atematici (e inoltre -ire in alcuni presenti in -nu-, per imitazione del perfetto). Infine -ran (con un doppio raro -ram 101) alla 3ª pl. negli aoristi atematici (e in rari presenti aventi, una 3ª sg. senza dentale); analogicamente -rām e -ratām nell’AS. (imperativo), -ra nel YV.; altre forme al perfetto e trapassato prossimo 335 337. Finali anomale in -si -se 316 (-ait 28).

Il participio è caratterizzato da un suffisso -ant- (flessione 248) all’attivo (con una variante più rara -at-, ibid. d); -āna- al medio (ma -māna- nelle formazioni tematiche e, isolatamente, al perfetto 336 fin.).

Così come c’è una forma “personale” autonoma in -(a)se 316, c’è un gruppo di finali semi-participiali, autonome di fatto, in -asāná- (a volte -sāna-), quasi interamente limitate alla RS., es. jrayasāná, “che si estende in lontananza” da JRI-, in parte associate a derivati in -as- (jráyas-), ma soprattutto imparentate alle 2e sg. (?) in -(a)se 316, cfr. il medio-passivo yamasāná- “tenuto alle redini” da YAM-. -āna- autonomo in bhṛ́gavāṇa- (epiteto di Agni), derivato secondario di bhṛ́gu- come vásavāna- (epiteto di Indra), di vásu-.

310. Accento. — Il verbo (quando è tonico, cfr. 89) ha il tono mobile nei sistemi atematici, là dove non ci sono o più alternanze vocaliche; come nel nome (e più che nel nome), l’alternanza tonica supera l’alternanza vocalica. Le forme piene (o forti) hanno il tono sulla vocale alternante, le forme deboli sulla desinenza; in caso di desinenze dissillabiche, sulla prima delle due sillabe terminali. Il congiuntivo, in quanto “forma forte”, mantiene il tono radicale; l’ottativo in -ī- è fluttuante (nelle forme abbastanza rare che possono permettere una valutazione sicura), ma conserva il tono sull’affisso ovunque questo affisso abbia la forma “piena” -yā-.

  1. In caso di aumento, si è notato, il tono è uniformemente riportato sull’aumento. In caso di raddoppio, il tono nelle forme forti si trasferisce sulla sillaba raddoppiante, almeno al presente e all’intensivo; al perfetto, al contrario, il tono rimane sul radicale.
  2. Sulla posizione del tono nelle formazioni tematiche, v. il dettaglio ai paragrafi pertinenti: si segnala solo qui che il raddoppio attrae anch’esso il tono.

Nel complesso, la struttura accentuale è sensibilmente più semplice che nel nome. Che il tono sia rigorosamente legato al grado vocalico, si vede dalle forme “piene” del pl. come éta étana di I-, dove il tono rimane attaccato al radicale.

Al participio medio (atematico), c’è ossitonesi, tranne nelle strutture raddoppiate (del presente) che, per imitazione delle forme personali (n. 1 sopra), accentuano sulla sillaba iniziale; inoltre, per un accordo probabilmente secondario, diversi participi in -āna- di aoristi radicali atematici accentuano il radicale, non senza doppioni (340). Infine, c’è un fluttuamento inverso in diversi participi presenti.






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