sanscrito vedico

il verbo - nomi verbali



IV. – NOMI VERBALI

362. Generalità. — In aggiunta alla derivazione primaria, è importante descrivere brevemente i nomi che sono strettamente collegati alla flessione verbale, formando in un certo senso il corrispettivo nominale del verbo. Questi includono innanzitutto i participi — di cui si è parlato nel contesto della flessione verbale, poiché, pur essendo nomi per aspetto desinenziale, si conformano molto da vicino alla struttura del verbo e “partecipano” persino alla diatesi. Includono poi nomi, talvolta flessi — verbi puri e semplici, verbi di obbligo —, talvolta invarianti — infinito, assolutivo. Gli usi sono vari e nel complesso abbastanza produttivi; l’accordo con il verbo, sia per forma che per significato, è generalmente più stretto che in qualsiasi altro derivato primario; il valore passivo è spesso evidente e in un caso addirittura, seppur eccezionale, l’attaccamento alla voce media è sensibile (422).

363. Verbale in --. — Una delle principali formazioni è l’aggettivo verbale in --, costruito sulla radice al grado ridotto. Fem. -tā́- 232.

Dopo un preverbo, il tono è sul preverbo (cfr. 189 n. 1) tranne in alcune forme (in parte usate come sostantivi) dove l’accento ossitono è mantenuto; in caso di due preverbi, come nelle forme personali, solo il secondo è accentato. Comunque, l’uso del preverbo con il nome in -- è meno frequente che con le forme personali.

La produttività del nome in --, originariamente limitata (molti radicali ne sono privi), aumenta nella RS. recente e nei mantra successivi; alcune parti dell’AS. ne fanno largo uso.

Tutti i tipi di struttura radicale sono rappresentati, la -i- finale delle radici in -ā- in hitá- sthitá- di DHĀ- STHĀ-, la i- interna in °śiṣṭa- di ŚĀS-, il vocalismo zero in (i)gdha° 20 così come in °tta- (accanto a °dāta- più raro, tvā́dāta- “dato da te”) di - (1): devátta- “dato dagli dei”, unico es. nella RS. (dopo la RS.: párītta- VS. con preverbo allungato; anche ávatta- VS. di - 2); ma l’esistenza di maghátti- fin dalla RS. antica suggerisce la possibile presenza di un *maghatta-. In ogni caso, la forma normale è dattá-, fatta sul tema del presente medio datté. DHĀ- dà invece, come visto, hitá- (h secondo 58; “°dhita- ibid., raro). -ī- in gītá- di - 2 e in vītá- di VYĀ-. Le basi “dissillabiche” danno hūtá- di -, jātá- di JAN- (ma dhvāntá- 23) o (per una radice con finale occlusiva) con l’elemento -i- esplicito, patitá- di PAT-.

Da ciò si estende abbastanza ampiamente una finale in -itá-, che a volte coesiste con quella in --, come in dhamitá- / dhmātá- di DHAM-. La forma in -i- si applica preferibilmente alle radici non alternanti: raramente c’è traccia di un grado ridotto come in uditá- di VAD-.

  1. ītá- in gṛbhītá- di GṚBH- (secondo le forme personali in grabhī- 346?).
  2. Uso del tema del presente (oltre a dattá- sopra citato) in jahitá- di -1, jagdhá-57 (49) 72.

Modificazioni fonetiche: gutturalizzazione della finale, siktá- di SIC- secondo 53 e (con trasferimento dell’aspirata sulla dentale seguente) dagdhá- 59; passaggio della finale occlusiva alla sibilante cerebrale sṛṣṭá- 59 e (con trasferimento dell’aspirata) gūḍhá- 61 tṛḍhá- 56 áṣāḍha- 56 (-ā- come nelle altre forme verbali o derivate di SAH-; allo stesso modo °svāttá- di SVAD-, cfr. svādú-).

Diversi: taṣṭá- 57 pṛṣṭá- ibid. naddhá- 58 °mūta-AS. di MĪV- secondo 69 n. 2 hrutá- di HRU-(HVṚ- ) cfr. 76.

È anche la finale -itá- che serve uniformemente per le basi “derivate”: causativo, tipo coditá- di fronte a codáyati di CUD- e (unico esempio in -pitá-) arpitá- (I) di - (anche árpita- con tono anomalo, forse da ā́ + arpitá-). Desiderativo: mīmāṃsitá- AS. di MAN-. Denominativo: bhāmitá- “reso furioso”, unico esempio certo [asū́rta- (senza -i-!) “soleggiato”?].

Un’estensione di -- in -távant- si trova nella forma unica aśitā́vant- AS. “avendo mangiato” (pdp. -tavant-), propriamente “possedendo una cosa mangiata”. Nella RS., un caso (comunque raro) come sutā́vant- ha il significato prevedibile di “fornito di (soma) spremuto”.

364. Diverse radici che terminano con una vocale lunga (inclusi īr e ūr derivati da ) o con una d (che porta a n secondo 46 124) o infine (raramente) con una palatale formano un aggettivo verbale in -ná- (senza doppione in -ina-): chinná- da CHID-, rugṇá- da RUJ-, pūrṇá- da PṜ-. La coesistenza con -tá- non manca: sanná- AS. VS. di SAD- accanto a sattá- RS. Il valore propriamente verbale è spesso poco chiaro.

Il verbale in -tá- (-ná-) è talvolta attivo, talvolta passivo: *gatá- corrispondente a gáchati e hatá- a hanyáte. Il principio di distribuzione è che il valore passivo prevale laddove il verbo è suscettibile di un impiego transitivo; riemerge tuttavia anche nei verbi intransitivi, come gató nā́dhvā VII 58 3 “come un cammino percorso”. Per quanto riguarda il valore temporale, il nome in -tá- è o indifferente (presente “generale”, eventuale) o preterito 429: l’uso del preterito è più evidente quando la forma è passiva.

Molti nomi in -tá- presentano, in parte o totalmente, un valore aggettivale (non verbale): ad esempio, júṣṭa- (notare il trasferimento dell’accento) “piacevole, gradito” (juṣṭá-, senso “verbale”). Come tutti gli aggettivi, possono avere valore di sostantivo astratto, drugdhá- “misfatto” (più raramente, anche con epiteti: drugdhā́ni pítryā). Come nome concreto, ánna- (tono!) “cibo”. Come nome di agente, dūtá- (probabilmente da una radice DYU-! DĪV- “lanciare”) “messaggero”. Notare ṛṇá- nt. “colpa; debito”, m. “colpa (incarnata in un essere vivente)”.

  1. Qui e là, il valore non verbale è segnalato da un grado pieno: l’unico caso chiaro è quello di márta- “mortale” di fronte a mṛtá- “morto”.
  2. L’aggettivo verbale di PAC- è pakvá-, chiaramente utilizzato come participio passato passivo in molti mantra, in particolare AS. XII 5 32 (prosa).

365. Aggettivo di obbligo. — Si tratta di nomi verbali che esprimono che l’azione verbale deve (per necessità morale o materiale) aver luogo, o che può aver luogo (merita di essere fatta, ecc.). Come nelle altre categorie “verbali”, il valore tende a indebolirsi in aggettivo puro, o addirittura in nome concreto o (al neutro) in astratto.

La formazione dominante è con suffisso -ya- (da pronunciare quasi sempre -iya-) e radice al grado pieno e tonico: tipo yódhya- “che deve essere combattuto” da YUDH-. Fem. -yā- 232. La presenza (abbastanza rara) di un preverbo non modifica il tono. Può esserci allungamento di una -a- seguita da una singola consonante, vā́cya- da VAC- (489 n.). Il suffisso riceve il tono (svarita) solo in grāhyà- (X) da GṚBH- e in alcune forme posteriori alla RS. Grado ridotto in gúhya- da GUH- e in diverse altre.

  1. Le radici con finale in -a- presentano lo stesso vocalismo radicale -e- che si ritrova in 31 n. fin. e che potrebbe derivare dall’infinito dativo radicale: déya- da DA- secondo il tipo 369 (cfr. anche l’imperativo dehí e gli astratti in °déya-, che tuttavia hanno bisogno di essere spiegati a loro volta). Così méya- AS. da MĀ- 1 è da collegare all’infinito (pra)-mé. Ma °vijñāyá- (X) da JÑĀ-.
  2. Sul trattamento -av- di una finale in -o-, v. 31 190 n. 2: bhávya- da BHŪ- (anche, con -ā- e un valore obbligatorio più marcato, bhāvyà- AS.).

Infine, diverse radici terminate in -i-, -u-, -ṛ- adottano un suffisso -tya- sull’esempio dei nomi-radice e mantenendo il grado ridotto del radicale: śrútya- da ŚRU-. Analogico gopayátya- “che si deve proteggere”, che sarebbe un caso unico di aggettivo verbale su un denominativo (base gopay-, cfr. gopāy).

366. Dal verbale ulā́yya-, molto problematico in verità (radice LĪ- con finale in -āy- secondo 31 n. fin.), e da derivati nominali del tipo °pāyya- 171 n. fin., nasce un nuovo suffisso in -ā́yya- (pronunciare -ā́yiya-): śravā́yya- “degno di essere ascoltato”. Deve risultare dall’uso di -ya- dopo i temi di presente in -āyati: panā́yya- “degno di essere ammirato”: panāyata di PAN-. Per estensione, dopo temi “derivati”: trayayā́yya- “che deve essere salvato”, derivato da un trayay- che estende il tema trāy- (di TRĀ-); vitantasā́yya- (intensivo) “da mettere in moto” di TAṂS-.

ā́yya- occasionalmente funziona come suffisso secondario in uttamā́yya- “da considerare il più elevato”. Stuṣéyya-(“che è da lodare”) 192 porta nell’AS. a śapatheyyà- “che merita maledizione”.

Un’altra formazione, probabilmente derivante dagli infiniti dati radicale, unita all’influenza di una parola come jénya- “affidato, adottato, familiare” (derivato da jā-, base annessa di JAN-), è quella in -énya- (pronunciare generalmente -eniya-): dṛśénya- “degno di essere visto” (infinito dṛśé). Lo stesso suffisso si trova su temi derivati o su basi di aoristi in -s-, abhyāyaṃsénya- “che deve essere indirizzato verso”. Il sostantivo sāmidhenī́- VS. n. di strofe (“adatte ad accompagnare l’accensione”) deriva da un verbale samidhenya-. Su tema nominale (o base denominativa?) vīréṇya- “proprio degli eroi”.

367. Una dozzina di verbi, quasi limitati alla RS., adottano il suffisso -tva- (generalmente letto -tuva-), con radicale pieno e tonico: kártva- “che è da fare” jántva- e jánitva- di JAN-; sostantivamente váktva- “parola”. L’origine è nel tema dell’infinito in -tu-, che appare allo stato nudo negli aggettivi del tipo suhántu- 171 206. Il senso di futuro è evidente. In modo simile, si ha un suffisso -tavyà- (tono di -yà- secondario 219 n. 1) dall’AS.: janitavyà-. Anche -anī́ya- (due esempi AS.), che è collegato a un nome d’azione in -ana- considerato come semi-infinito.

  1. Su un tentativo di verbale d’obbligo in -tra-, v. 210.
  2. Mezzo verbale d’obbligo, mezzo aggettivo (eventuale) è il gruppo in -atá-; darśatá- “degno di essere visto” e alcuni altri, incluso probabilmente rajatá- AS. “argento” (“brillante”) e, su base denominativa, haryatà- “desiderabile”.

368. Infinito. — L’infinito, frequente, presenta una formazione molto varia e quasi anarchica. Utilizza temi nominali (di genere variabile) con valore di nomi d’azione, fissati in una forma casuale determinata: Acc., Ab.-G. e soprattutto D. (sempre al singolare); esistono inoltre finali senza un chiaro collegamento casuale, in -i e -ai. La distinzione semantica con gli usi propriamente nominali non è facile, tranne nei tipi che non hanno un corrispondente nominale o in quelli differenziati dalla posizione del tono (infinito in -áse / D. nominale in -ase) o dal grado radicale (vidmáne infinito / vedman- n. d’azione). I tratti sintattici (420) non sono né costanti né tipici: ciò che resta è una probabilità morfologica.

Non ci sono usi in fine di composto, se non dopo preverbi.

369. L’infinito dativo si forma inizialmente su nomi-radice, tipo mudé di MUD- (stesso tono desinenziale del D. nominale).

Tuttavia, il tono radicale è conservato in bā́dhe (grado lungo!) di BADH- 86) e in alcuni altri; così come negli usi dopo preverbo (secondo 156 n. 2).

L’uso dopo preverbo domina di gran lunga, come nelle formazioni nominali. In un composto propriamente nominale, si ha solo śraddhé “per credere” (dove il primo membro è un nome fisso), eventualmente vayodhai “per dare forza”.

  1. Nelle radici terminate in -ā- si ha sia la finale -e come nei nomi 263, sia -ai: pramé “per formare” vikhyai “per vedere lontano” di MĀ-1 e KHYĀ-; entrambi in (V 41 1) e parādai di DĀ-.
  2. Particolarità foniche o morfologiche: vocalismo bhuvé / °bhvé di BHŪ- secondo 32 b. Uso di un tema verbale sampṛ́che di PṚŚ- e śiśnáthe di ŚNATH-.

Un secondo gruppo di D. è in -áse (tono suffissale; nessun preverbo, così come nella categoria nominale in -as-), es. jīváse “per vivere”; tuttavia si trovano alcuni toni radicali, uniti a un grado pieno, come áyase “per andare”. La formazione dipende in parte dal tema presente: cfr. puṣyáse “per fiorire”, vṛñjáse “per girare”.

Sul tipo ambiguo stuṣé e simili, vedi 316 e 422.

370. I (rari) D. in -(t)áye, derivanti da temi in -i- o in -ti-, sono poco caratteristici per il senso: pītáye “per bere” si avvicina all’Acc. pītím e all’uso compositivo sómapītaye. Isolatamente si trova - tyaí (D. di tipo “femminile”) in ityaí “per andare”; -váne in dāváne “per dare” e alcuni altri (tono suffissale, almeno in parte!); -mane in vidmáne già citato (tono suffissale!) “per sapere” e in alcuni altri, con tono radicale.

La categoria suffissale più vivace è quella in -tave (-itave), cioè D. di tema (m.) in -tu-, con radicale pieno e tonico: tipo hántave “per uccidere”. Qui le caratteristiche semantiche sono meglio marcate.

  1. L’uso senza preverbo domina, come nei derivati nominali in -tu- (se c’è un preverbo, questo porta il tono).
  2. Fonismo: vóḍhave 27 56 stárītave AS., come stárīman-, di STṜ-.

Una variante di -(i)tave è -(i)tavaí, in una dozzina di forme (tre nuove nell’AS.): l’origine è stata ricordata in 91.

  1. Vocalismo radicale sū́ta AS. “per partorire”, come sasū́va.
  2. Jīvā́tave “per vivere” è un semi-infinito fatto sul tema di congiuntivo jī́vāt(i) e coesistente con un tema (f.) yīvā́tu-. Semi-infinito anche caráthāya “per andare”. In realtà, ogni D. di nome d’azione può tendere in qualche momento verso un valore infinito.

371. L’infinito Acc. è generalmente in -am: cioè l’Acc. di un nome-radice, usato con preverbo e, quindi, con tono radicale mantenuto: es. ārúham “per salire”. C’è traccia di un uso senza preverbo in yámam “per guidare” e śúbham (tono radicale anch’esso mantenuto) “per brillare”.

Ancor più ristretto è un gruppo di infiniti in -tum (5 forme RS., 5 nuove AS.), formato come quello in -tave (tono sul preverbo in caso di preverbo: prábhartum “per presentare”); -itum dopo la RS. La categoria è appena accennata e semanticamente poco evoluta: nulla indica il suo futuro progresso.

  1. Su tema di presente, °pṛcham “per chiedere”; su denominativo (cfr. 359 n.) vareyám “per brigare”.
  2. -tím incerto e comunque isolato, forse śaktím III 57 3 IV 43 3 “essere al servizio di”.
  3. -tu- in finale di membro anteriore (caso unico) śróturāti- (I) (accanto a śrótu e suśrótu- “che concede l’atto di ascoltare” cfr. sū́ryaṃ dṛśáye rirīhi IX 91 6.

372. Parallelamente, esistono due piccole formazioni di infinito con valore di Ab. o (più raramente) di G.: quella in -as (su nomi-radice, grado ridotto, tono radicale, preverbo) e quella in -tos (stesse caratteristiche di -tum e -tave): avapádas “per cadere”, hántos “per uccidere” (tono sul preverbo, nídhātos “per depositare”). Le finali non riducibili a un tipo suffissale e casuale preciso sono quelle in -sáni (tipo neṣáṇi “per guidare”) che utilizzano la base in -s(a)- 329 dedotta in ultima analisi dagli imperativi in -si 316. Eccezionalmente, su tema di presente, °stṛṇīṣáṇi “per estendere” (cfr. l’eventuale infinito in -(nī)ṣé 322 n.). In iṣáṇi “desiderare” la sibilante appartiene alla radice, come anche in °bhūṣáṇi “aiutare”, il che libera una finale -ani, che si ritrova forse in rājáni X 49 4 taráṇi III 11 3 con valore infinitivo probabile.

  1. Eventualmente -mani (cfr. sopra -mane) in vidharmaṇi “per distribuire” o “per diffondere” (ma con abbandono della reggenza per l’Acc.); -tari (base di n. d’agente?) in dhartári “per mantenere” e alcune altre forme oscure (cfr. 252 n. 2). -i- potrebbe essere una particella aggiunta a finali -an- -ar- non desinenti.
  2. -(i)ṣyai su tema avyáthiṣī- 235 (var. avyáthiṣe MS.).

Infine, 35 temi di infiniti, quasi limitati alla RS. (nessun es. nuovo nell’AS.), utilizzano una finale - dhyai. Le forme sono costruite su un tema di presente tematico, del tipo tudáti (o assimilato a questo tipo) di solito: es. vandádhyai “per lodare” di fronte a vándate. Tuttavia si incontrano alcuni casi di tono radicale, píbadhyai “per bere” di fronte a píbati, yájadhyai “per sacrificare” di fronte a yajádhyai VS. (yájate). Su tema di perfetto, vāvṛdhádhyai “per rafforzare”; su causativo (con trasferimento di tono) mandayádhyai “per gioire”, di mandáy-; su denominativo vājayádhyai “prendere slancio”.

  1. Su irádhyai, vedi 77.
  2. Finale -dhye in TS. KS. gamádhye “per andare”, seguendo lo scambio -e / -ai in -tave / -tavai e altrove.

373. L’assolutivo, abbastanza frequente, si è sviluppato, soprattutto nell’antica RS, con una finale in -tvī́, che si basa su una finale mal definita attaccata allo stesso suffisso -tu- che fornisce gli infiniti in -tum e -tave. Tuttavia, il grado radicale è ridotto, il che sembra indicare una finale (-t-) + u (o piuttosto ū che dà al L. -vī, come camvī̀ citato in 265). Esempio: kṛtvī́ “avendo fatto”. Praticamente la formazione (come quella seguente) si conforma strutturalmente ai verbi in -tá, vedi gūḍhvī́ “avendo nascosto” come gūḍhá-; ma hitvī́ (i breve!) di HĀ-1. Identica per la struttura generale è la formazione in -tvā́ (da leggere -tuvā́) che dovrebbe, come la precedente, essere spiegata da -t + ū, ma con desinenza di I. (la desinenza dei nomi m. in -tu- essendo -[t]unā). Questa formazione, rara nell’antica RS, è rapidamente in aumento in seguito: hatvā́ “avendo ucciso”, dattvā́ “avendo dato” (come dattá- 363). Con -i- “di collegamento”, dall’AS. solo, hiṃsitvā́ “avendo leso” (gṛhītvā́ AS. “avendo afferrato” come gṛhītá-; su causativo, dall’AS. anche, sraṃsayitvā́ “avendo fatto cadere”). Solo una forma con preverbo, pratyarpayitvā́ AS. “avendo rispedito indietro”.

Sette radici (RS. recente) attestano una -tvā́ya finale, una combinazione di -tvā́ e -ya: gatvā́ya “essere andato”. Le forme dattvā́ya hitvā́ya raddoppiano le precedenti.

374. Poiché la finale -tu (-tū-) è intrinsecamente inadatta all’uso dopo un preverbo, in questo caso si usa la finale -i, che, con una desinenza di I. (spesso abbreviata), dà -yā (-ya). Il tono è radicale, sebbene il grado sia normalmente ridotto (salvo che le radici in finale, qui come altrove, siano immobili, utthā́ya AS. “essendosi alzato”).

Su base causativa, prā́rpya “avendo messo in marcia” (Libro I, unico es. della RS.); su tema di presente, upadádya AS. “avendo messo” (incerto). Il fonema radicale in abhigū́ryā “avendo celebrato” vitū́ryā “avendo fatto passare” si spiega con 37.

Come nei nomi-radici 195, un -t- si inserisce dopo una vocale breve, dando luogo a una nuova finale -tya o più spesso -tyā, tono radicale: ābhṛ́tyā “avendo portato”. La soluzione è evitata dall’allungamento della vocale radicale in āyū́yā “avendosi appropriato” e alcune altre (posizione favorevole davanti a y-, vedi 42).

L’assolutivo in -(t)yā si trova anche dopo alcuni avverbi che formano una stretta connessione con il verbo, es. araṃkṛ́tyā “avendo preparato”. Un caso estremo è pādagṛhya “afferrando ai piedi” hasta° “prendendo la mano”, dove l’elemento anteriore è un vero e proprio tema nominale.

Un assolutivo in -an (dopo preverbo) si sviluppa in ávivenam “senza dispiacere” (incerto) e alcune forme della RS. 419; più chiaramente, dopo due preverbi e radicale allungato e tonico, abhyākrā́mam AS. “avanzando” e alcune altre forme, che però potrebbero essere tentate di essere classificate tra i composti adverbiali (avyayībhāva).






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