sanscrito vedico

formazione del nome



III. - DERIVAZIONE SECONDARIA

214. Generalità. — La derivazione secondaria comprende un vasto insieme di suffissi, alcuni dei quali sono comuni con la serie primaria. Il tema di base è un nome qualsiasi; eventualmente una base pronominale, invariante, eccezionalmente una forma casuale (māmaká- 283) o una forma personale (gopayátya- 365). La base può esistere solo in forma analitica (kṣaítra-patya- “proprietà”, da kṣétrasya pátiḥ); raramente consiste in un derivato primario (compreso un nome-radice) con valore propriamente “verbale”. L’attacco del tema al suffisso determina delle modificazioni elementari: un tema con finale -a- -i- cancella questa vocale davanti a un suffisso che inizia con vocale o con y- (syoná- 45 duryoṇá- “combattimento”), mentre un -u- evolve generalmente in -av-: pārthavá- “discendente di Pṛthu” aniṣavyá- (quindi davanti a y secondo 31 n.) “non esposto alle frecce”. Questa evoluzione di u in av va di pari passo con il “guṇa” delle radici terminate in -u- (e meno frequentemente in -i-) che si osserva talvolta dove radici di altre strutture hanno il grado ridotto, cfr. 317 (ájuhavur) 342 (adidyavat) 343 (ácucyavur).

  1. Questa tendenza non è priva di eccezioni: tā́nva- “che gli appartiene personalmente” mantiene -u-, probabilmente a causa della flessione consonantica di tanū́- 265 (lo stesso vale per alcuni altri derivati in -a- con vṛddhi iniziale, che non hanno conservato la flessione consonantica); ṛtvíya- 219 dovrebbe rappresentare uno stato più arcaico di ārtavá- 227 o ṛtavyá- TS; il suffisso femminile -ī- mantiene anche -u-, vedi 234. Sulla caduta di -u- alla fine del composto, vedi 163. Su un trattamento -āv- (-āy-), vedi 234 n.
  2. Per analogia, la finale -i- dà -ay- in trayá- 298 hṛ́daya- 229.
  3. Mutilazione della finale (come alla fine di un membro compositivo) in retín- “ricco di sperma” da rétas-, dhūmrá- VS. “colore di fumo” (da tāmrá- “tenebroso” in tāmradhūmrá- AS.), naḍvalā́- VS. “giaciglio di canne”, su naḍá-.
  4. Il processo di infissione (come in 203 n. 2, eventualmente 211 alla fine) è chiaramente attestato solo nella derivazione pronominale 283 293 o avverbiale 391; cfr. anche 230.

215. Dei trattamenti di saṃdhi sono attestati, a titolo eccezionale, in sáhovan- AS. “potente” (var. di sahā́° RS.; da sahojít-) pṛ́ṣadvant- “variegato” vāgvín- AS. “eloquente” (cfr. vag° primario o pseudo-primario 190) dhṛṣadvín- “audace” (da °varṇa-): quindi sempre davanti a v-; davanti a m- in ṛgmín- “fornito di strofe” vidyúnmant- (I) “fornito di lampi” (su °mahas-) e alcuni altri; mṛnmáya- 101, dove l’elemento -maya- potrebbe essere stato storicamente un membro di un composto.

L’allungamento di una vocale finale del tema è determinato in gran parte dalla natura del fonema seguente. È (almeno per un -a-) costante davanti a -vin-, frequente davanti a -vant- -van- e talvolta da restituire dove il testo dà a breve.

  1. Accorciamento (raro) sadhanitvá- “comunità”; devitame V. sg. f., fatto, sul V. isolato devi.
  2. In suprajāstvá- 163 e più nettamente in anāgāstvá- “assenza di colpa”, la finale del N. sg. animato si è mantenuta.

216. Se il tema è alternante, come nella composizione, si utilizza la forma ridotta come base: ad esempio pítrya.- (considerando il 31), vṛ́ṣṇya- (ibid.), a fianco di pitṛ́ama- vṛṣatvá- (ma: gótama- nome proprio; revánt “ricco” è probabilmente per rayivánt-). Nei temi in -an-, la forma -an- si mantiene (davanti a vocale e y-) nella maggior parte dei temi dove la struttura fonica (35) richiedeva o favoriva questa soluzione: karmaṇyà- “abile nell’atto” (come G. kármaṇas 249, mentre vṛ́ṣṇya- sopra citato segue G. vṛ́ṣṇas), śvanín- VS. [“scivolamento” per *śvanī́-] “che guida i cani” (la soluzione *śun è evitata); ahanyà- “quotidiano” (comunque da leggere *ahaniya-), rispetto a °ahna-, dove il -a finale è un samāsānta. Stessi risultati davanti a v-: vṛ́ṣaṇvant- 35 śvànvant- AS. “accompagnato da cani” e analoghi (la normalizzazione inizia solo con lómavant- AS. “peloso”); secondariamente, davanti a m-, aśmanmáya- “fatto di pietra” e anche davanti a occlusive, °hántama- “che uccide meglio”, (perché si tratta del caso eccezionale di un nome-radice in -an-). La soluzione va di pari passo con quella che produce vṛṣaṇaśvá- 157 e forme verbali come hanmas 35.

  1. Un’altra possibilità è la cancellazione della nasale. Questo avviene alla fine di un composto davanti al samāsānta -a-163; inoltre in aryamyá- “specifico di Aryaman” varmin “corazzato”, per evitare gruppi di consonanti difficili.
  2. Per analogia di -an-, si ha -in- in dyumnintama- (I) “molto splendente” (anche dyumnít°) e alcuni altri: -un- in madhúntama- VS. “molto dolce” (var. mádhvan° VSK.) secondo madín° (śunvatī- paipp. ad XIX 36 6 di śván-, dubbioso).

La forma piena in -ant- del participio si mantiene (davanti al suffisso femminile -ī- 235 e inoltre) in alcuni rarissimi ampliamenti in -anta- 228; infine in vrā́dhantama- “molto esaltato” = vrādhant-t° dove la base non era più percepita come participio.

Nel participio perfetto, finale -uṣ-: vídúṣṭara- “che sa meglio” mīdhúṣmflni- “generoso”.

217. Molti suffissi secondari si costituiscono, come nella composizione, su basi obsolete o oscure. Ricordiamo kṣumánt- 20 78; cākāmá- potrebbe essere ricondotto a *cakṣman- se il significato è “relativo all’occhio (celeste)”; sánutya- “straniero”, alla stessa base che fornisce l’avverbio sanutár “lontano”; jā́marya- “terrestre” (?), a *jamar (237) che amplia jám- (G. jmás); naríṣṭā- AS. “gioco”, a naris- (cfr. namá- VS.); vánanvant- “fornito di una parte del carro”, a *vanan come doppione di vanargú- 22 e analoghi; māṃsanvánt- TS. secondo le parole vicine.

  1. Il femminile non è in linea di principio indicato (su devitame, vedi 215; su alcune basi in -ī- vedi 235 alla fine).
  2. Estensioni in -s-; ū́rjasvant- (X) “potente” e analoghi. Queste finali in -asvant- -asvin- e altre (cfr. ancora śatasvín- “che possiede cento” indrasvant- “accompagnato da Indra”) provengono dalle numerose forme dove l’elemento -s era autentico; non si deve considerare una desinenza di N. — Túviṣmant- “forte” è un compromesso tra i composti in tuvi° e taviṣá- taviṣī- 202. Ma, come queste ultime forme, può essere spiegato anche dall’indebolimento di un suffisso (primario) in presenza di un nuovo suffisso (secondario): caso raro, ma indiscutibile a livello comparativo.

218. Vṛddhi iniziale. — Un tratto notevole è la frequente presenza di un rinforzo (di tipo “vṛddhi”, cioè ā per a; ai e au per ī̆ e ū̆; ār per ) nella sillaba iniziale del derivato, che può, nei composti, appartenere al membro anteriore (ma, essendo il composto formato dopo, sugārhapatyá- “buon Fuoco domestico” AS.). Si ha così āmitrá- “(emanante dal) nemico” da amítra-, pā́rthiva- “terrestre” da pṛthivī́-, maitrāvaruṇá- (unico tono!) “proveniente da Varuna e Mitra” (unico esempio di questo derivato di dvandva nella RS.; altri nel YV.). Questa vṛddhi detta “iniziale” o “secondaria”, che fa parte integrante della derivazione, influenza diversi suffissi, in misura variabile. All’interno dello stesso suffisso, si adatta preferibilmente alle forme dove il rapporto di derivazione è più marcato: così i patronimici (e funzioni correlate) in -āyana- -eyá- -i-, vari aggettivi di appartenenza che insistono sull’origine o (nozioni religiose) il dedicamento a tale dio: soprattutto nomi a suffisso -a- e -ya- (questi ultimi forniscono piuttosto astratti), talvolta -eyá-, raramente -ka- -ra- ī́ya- -i- -na-. Il suffisso -a- essendo invisibile quando la base termina già in -a- (caso normale), la “vṛddhi” rimane l’unico segno apparente della derivazione: forse è qui l’origine di tutti gli altri usi di “vṛddhi” secondaria.

  1. Se la sillaba iniziale contiene una i o una u scritti y o v (quindi: davanti a vocale), la vṛddhi agisce su detto i o u: sauvá- VS. “celeste” su svàr, normalmente pronunciato s(ú)var. Forse il fenomeno era inizialmente limitato alle forme compositive, le uniche dove la RS. lo attesta: vaiyaśvá- patronimico di vyàśva- pronunciato v(í)yaśva-; allo stesso modo saúvaśvya- “ricchezza in cavalli”, cfr. 34.
  2. Vṛddhi anomala in -ā-: kāberaká- AS. nome proprio, probabilmente da kúbera-; śāṃśapá- AS. “in legno di śiṃśápā”; dātyauhá- VS. “gallinula” da dityauhī́-: volgarismi?
  3. Suhā́rda- “di buone disposizioni” naturalmente non basta a dimostrare che nella composizione la vṛddhi potesse influenzare l’iniziale del secondo membro, cfr. hā́rdi suhā́rd- 257.

219. Accento. — L’accento suffissale è il più frequente. Alcune classi suffissali, che normalmente non lo presentano, lo assumono per spostamento quando la base è un ossitono in -i -u - -a (derivato da -an-), si tratta in questo caso del suffisso -vant- -mant- e talvolta -tama-, e questo trasferimento va di pari passo con quello osservato nei casi descritti 87. Ma il tono radicale è spesso mantenuto. Come nei composti nominali, ma meno frequentemente, esiste una tendenza all’ossitonesi radicale: puruśátā- “modo di essere dell’uomo”, da púruṣa-; o mṛḍayáttama- “molto compassionevole”, da mṛḍáyant- (come i composti 184). Infine, molti derivati, soprattutto quelli in -a- -ya- con vṛddhi iniziale, invertono il tono del tema di base: āyasá- “di ferro” partendo da áyas- (o āmitrá- citato 218), cioè ossitonesi, il che è normale; ma, su tema ossitono, pā́rthiva- 218 da pṛthivī́- o pítrya- “paterno” (quindi: anche in un caso senza vṛddhi) da pitṛ́-, quindi, il tono iniziale sostituito al tono finale. Il movimento non è costante; le basi accentate su una vocale mediana trasferiscono il tono piuttosto sull’iniziale (saúbhaga- “fortuna” da subhága-) che sulla finale e in generale la sillaba affetta da vṛddhi tende a portare il tono, il che non è privo di contraddire l’interversione: ā́dhipatya- “sovranità”, da ádhipati-. Così i derivati in -i- hanno sempre il tono iniziale.

  1. In caso di suffisso dissillabico, il tono è più spesso penultimo che finale. Lo svarita della maggior parte dei suffissi in -ya- privi di vṛddhi iniziale, inclusi tavyà- 367, va nella stessa direzione, indicando una pronuncia -(i)ya-.
  2. Oscillazioni si verificano nella maggior parte delle categorie. Notare gli scambi, senza variazione semantica, arvācīná- / arvācī́na- “girato da questo lato”; ṛtvíya- RS. / ṛ́tviya- AS. “regolare”; abhríya-/ abhriyá- “proveniente dalla nuvola”. Con variazione, kā́vya- “essere un kavi” o “della natura del kavi” / kāvyá- patronimico. Sull’accento nei femminili, v. 232 234.

220. Categorie specializzate. Comparativi. — I derivati in -tara-, con valore comparativo, formano coppia con i superlativi in -tama-. Il tono è radicale, tranne purutáma- “molto numeroso”, spiegabile con lo spostamento segnalato nel 219.

-tara- serve primitivamente a differenziare oggetti (due in principio) e perciò si applica a un sostantivo (vṛtratára- “Vṛtra tra tutti i vṛtrá-”, con tono penultimo a causa del cambio di categoria grammaticale); vatsatará- “vitello semi-adulto” aśvatará- AS. “mulo” sono ossitoni.

-tama- funziona inoltre (con un’accentuazione modificata 300) per formare l’ordinale: come -tama- ordinale, -tama- superlativo designa propriamente l’elemento che completa una totalità.

  1. Śaśvattamá-* è, come indica il tono, percepito come “ordinale”, “colui che assume un rango eminente tra elementi che si susseguono in serie indefinita”.
  2. Sovrapposizione suffissale: jyéṣṭhatama- “il migliore di tutti” jyā́yastara- Kh. p. -160 (il tema di base non è più pienamente percepito come comparativo o superlativo).

Sul preverbo: uttamá- (tono finale per analogia dei seguenti) e úttara- “il più elevato”. Ma altrove, i prefissi o avverbi utilizzano semplicemente il suffisso -ra- (ápara- “più indietro, minore”) e -ma- (apamá- “il più indietro”). -má- coincide qui ancora con l’ordinale 299 (e con una forma come caramá- “l’ultimo” assimilata all’ordinale).

  1. Di fronte a ántama- (tono iniziale! Anche antamá-, hapax) “il più vicino”, sull’avverbio ánti, si è costituito ánta-ra- “vicino”, distinto da ántar-a- AS. (RS. X?) “interno”, fatto su ántar. ávara- “più vicino, più indietro, ecc.” deve provenire in parte almeno da avár 133.
  2. -ima- in agrimá- “in testa” (secondo agriyá-).

221. -tya- forma un gruppo di aggettivi locali, costruiti su prefissi o avverbi (che mantengono il tono; notare solo ā́viṣṭya- (I e X) “manifesto” su āvís); nítya- “proprio (di chi parla)”, da cui “costante”; sánutya- 217. Altro, āptyá- (tono!) “nato nelle Acque” [aptyá derivato da *apta-].

-t(a)na- forma, su basi invarianti, alcuni aggettivi temporali: nū́tana- “che appartiene al momento

attuale” e (più raro) nū́tna-; tono variabile.

Gruppo di sostantivi (f.) locali a suffisso -vát-, su prefisso o avverbio di direzione: pravát- “distanza in avanti o in alto; corso” arvāvát- “vicinanza” (fatto su parāvát- e cfr. arvā́ñc-). Gruppo di aggettivi in -īna- indicanti la direzione (o: la durata), che inizialmente ampliano temi in -añc- 195, così arvācī́na- 219; poi si diffondono in añjasī́na- “che va dritto” sull’avverbio áñjasá e alcuni altri (tra cui, inaspettatamente, satīna° nel senso di satya°). Tono penultimo, più raramente finale.

Alcuni ampliamenti tramite -bhá- di nomi di animali, così vṛṣabhá- “toro” (anche ṛṣabhá- da *ṛṣan); altrove la base è più o meno identificabile; sthūlabhá- AS. “grosso” sembra applicarsi al membro di un animale.

222. Astratti. — Il valore di astratto è fornito da suffissi come -a- -ya- -ka- che hanno altre accezioni concorrentemente. Tuttavia, esistono anche alcuni suffissi specializzati, in particolare, prima di tutto, -tvá- nt. e -tā.- f.

-tvá- compare volentieri dopo basi non terminate da un -a-, così dīrghāyutvá- “fatto di avere lunga vita”: questo esempio (unico per la RS. e proprio dei Vāl.) mostra che la base può essere un composto (bahuvrīhi) a doppio membro nominale; in ahamuttaratvá- AS. (tipo anch’esso unico) “affermazione della propria superiorità”, è il suffisso che rende possibile il composto. Un doppione più raro, non composito, è -tvaná- (particella -na allargante, come nella coniugazione), pressoché limitato all’antica RS.

-tā- (che attira quasi sempre il tono sulla presuffissale) indica di preferenza il modo di essere, con, talvolta, sfumatura collettiva (janátā- AS. “umanità” síkatā- VS. “ghiaia”, cfr. sika° TĀ. I 12 3). Solo composti rudimentari (in a[n]° e su°) possono figurare come basi. Esiste un allargamento, con la stessa accentuazione, in -tāt-, anch’esso f. (nella sola RS. e solo nei casi obliqui del sg.), un altro in -tāti- (f.): la finale -tātā è piuttosto l’I. di -tāt- che il L. di -tāti- (e potrebbe avere contribuito a creare -tāti- se quest’ultimo è effettivamente rifatto su -tāt-); la finale -tā. abbastanza frequente (con valore più o meno fisso) può risultare per aplologia da -tātā 77 268, così che alla fine un tema come devátā- “ufficio o natura degli dei”, attestato fin da X, può derivare dall’I. sg. devátā “presso gli dei” uscito da devátātā “al servizio degli dei”.

  1. Si ha anche -tvátā per duplicazione, in due parole dell’antica RS. usate all’I. sg. fisso.
  2. Sūnṛ́tá- “modo di essere di un uomo di bene” o forse piuttosto “forza vitale” (cfr. sūnára- “nobile, bello” o piuttosto “pieno di vitalità”) è stato aggettivato in sūnṛ́ta- per una sorta di “personificazione” dell’astratto, come satyatāti (V.), epiteto di Agni e śáṃtāti (Ac. nt.) “salutare”.

223. Aggettivi di appartenenza. — Il suffisso più importante e più chiaro è -vant-, che ha un doppione -mant- usato quando la base ha come penultima o finale una vocale diversa da a ā (e inoltre, per dissimilazione, in due forme citate 78). Ci si aspetta -vant- dopo vocale ā̆ finale o penultima; questo è ciò che normalmente avviene, ma esistono, soprattutto nell’antica RS., un numero notevole di finali in -ivant- -īvant- e alcune altre: alcune spiegabili per diverse analogie o influenze o riconoscibili come secondarie (caso di un -vant- sostituito a -van- o a -vas-, ecc.). La distribuzione si normalizza gradualmente: agnimánt- succede dall’AS. a agnivánt- “dotato di fuoco o di Agni”. Tono radicale, tranne il trasferimento definito 219; doppio tono radicale mantenuto in dyā́vāpṛthivī́vant- (caso unico) AS. “accompagnato dal Cielo e dalla Terra”. Su base adverbiale, viṣūvánt- (tono!) “situato al centro”, da *viṣu, cfr. viṣūvṛ́t-.

Il senso è “dotato di, costituito da, accompagnato da”; quello (raro) di “simile a” (per es. in nṛvánt- “simile a [quello di] un eroe; virile”) è specioso; se è da mantenere, si vedrà l’influenza degli avverbi in -vát 390.

  1. -vant- sviluppa un -van- primario 224 in vivásvant- (vi°) “luminoso” accanto a vivásvan- (raro); -mant- sviluppa -ma- in virúkmant- “brillante” e dasmát (nt. adverbiale) “meraviglioso”; sostituito a -van- primario, prob., in suṣumánt- “molto incitante” o “ben procreante”. Ci sono comunque tracce di un’alternanza flessionale tra -vant- e-van- 247 249.
  2. Duplicazione suffissale in antarvā́vant- (nt. “terra intermedia”) yātumā́vant- = yātumánt- “che pratica la magia”; vajrivas (V.) nel senso di vajrin è stato ricostruito su adrivas, termine analogo. Allargamento in -vatí- in niyutvate (V.) “o padrone della carrozza!” (secondo °pate?).
  3. Su base perduta, śáśvant- (cfr. śáśīyas- 213) “che si riproduce in serie indefinita”, dove l’avverbio śaśvadhā́ lascia supporre un doppione (primario?) *śaśvan-. Su pipiṣvant-, vedi 336; su svávant- e analoghi, 72 243; su *bhaktivant- passato a °vas-, 247.

Un uso tipicamente ṛgvedico è quello del nt. sg. nel senso di “ricchezza in…”: si hanno così sequenze formulari come gómad áśvāvad ráthavat VII 27 5 “ricchezza in vacche, cavalli, carri”.

224. Un doppione meno comune di -vant- è -van- (che non ha un corrispondente in -man-), con le stesse caratteristiche toniche. Meno netto, semanticamente, rispetto a -vant-, ma in parte soppiantato da quest’ultimo. Esempi: arātīván- “nemico” hā́rdvan- VS. “cordiale” (base come hā́rdi, ecc.). In dhī́van- AS. “saggio”, è il doppione in -vant- che è attestato precedentemente; ma dhī́van- potrebbe essere interpretato con un -van- primario, che è indiscutibile in kṛ́tvan- (allargamento del radicale, tipicamente primario!) “attivo” sanítvan- (stesso allargamento e i “di collegamento”!) “donatore” e in molte altre parole, alcune dopo prefisso, il cui valore primario è assicurato. Cfr. 212.

-vana- in satvaná- “valoroso”, sviluppato da sátvan- (su base participiale sát-) e alcuni altri. L’I. adverbiale nivanā́ “verso valle” (su prefisso) corrisponde ai derivati in -vát(ā) 221. -vala- da °kṛṣīvala- “coltivatore” (X). -váya- in druváya- AS. “fatto di legno”, di fronte a diversi derivati in -máya- che designano la materia prima, mṛnmáya- 101 o più liberamente nabhasmáya- “umido”. Altro cáturvaya- 298. -vya- in bhrā́tṛvya- (unica forma attestata) “simile al fratello = cugino”. -vin- presenta rispetto a -mín- (raro) una distribuzione fonica analoga a -vant-/-mant-, cfr. yaśasvin- AS. “glorioso” / ṛgmín- 215; infatti, la maggior parte dei derivati in -vin- hanno una base in -a- (allungato) o -as-.

225. Produttivo è il suffisso -in-, che si attacca quasi sempre a temi in -a- (o, al massimo, ricondotti a temi in -a- per perdita di una consonante finale, come retín- 214 varmín- 216). Eccezione eventuale śvanín- 216 e probabilmente hiraṇín- “ornato d’oro” (come hiraṇmáya- VS. TB.), abhimātín- (I) “che tende insidie”. Così dhanín- “ricco” aśvín- “costituito di cavalli” (nome di divinità-cavalli) mitrín- “alleato”; semplice allargamento in mahín- “grande”, ecc. I valori semantici sono meno chiari che nei derivati in -vant-.

  1. Esiste indubbiamente un suffisso -in- primario in diverse forme dopo prefisso (o più raramente: dopo membro nominale), dove -in- figura su radicale pieno, allungabile secondo 189. Esempi: nitodín- “che punge” kevalādin- “che mangia da solo” vivyādhín- XS. “che trafigge”. Ma, a parte le forme ambigue o quelle spiegabili con una confusione flessionale -i-/-in-, la formazione appare poco prima della RS. X e si sviluppa poi abbastanza largamente nell’YV. e soprattutto nell’AS. Il carattere “primario” quindi non è probabilmente originale. Su tema di presente, vyaśnuvín- VS. “che raggiunge” (-uv- secondo 33); su base raddoppiata, niyayín- (X) “che scende” accanto a yayí-. Regime Ac. (raro) 404.
  2. Alcune finali in -yin-* VS., su basi in -a- allungato: dhanvāyin- “portatore dell’arco” (-y- tampone come 190): ma ātatāyín- VS. “che tende l’arco” ha come var. -āvín- TS. Già nel Libro X, si trova ṛtāyín- “fedele all’Ordine”, forse fatto su māyin- che precede.

226. Patronimici. — Sono caratterizzati dalla vṛddhi iniziale (necessaria) e da suffissi in parte specializzati per questo uso. Vale a dire, -i- (tono iniziale) tratto da alcune basi in -a-, tipo ā́gniveśi- “discendente di Agniveśa” (inoltre, unica parola non patronimica, śā́rathi- “compagno di carro”, con -i- samāsānta?); -āyana- (generalmente ossitono) si sviluppa dopo la RS., che ha ancora solo un esempio (nei Vāl.), kāṇvāyanāḥ (V. pl.) “discendente di Kaṇva”, oltre ukṣaṇyā́yana- dove l’assenza di vṛddhi e il tono sono insoliti; -eyá-, soprattutto su basi (femminili!) in -ā- -i-, tipo āditeyá- “discendente di Aditi” (matronimici); -a- (tono finale, più raramente tono iniziale), vārṣāgirá- “discendente di *Vṛṣāgir”; infine -ya- (stesso fluttuare tonico), sāhadevyá- “discendente di Sahadeva”.

L’insieme è relativamente poco abbondante, benché in progressione. Un procedimento concorrente è la combinazione di putrá- “figlio” (o analoghi) con regime al G. o procedimento compositivo (dopo la RS.). La giustapposizione del patronimico e del nome proprio non è frequente, né, quando avviene, l’ordine degli elementi è fisso; infine il patronimico è usato raramente al N., raramente anche al pl. I mantra tardivi si avvicinano alle tendenze osservabili nella letteratura successiva. Incerti kāberaká- 218 mā́hīna- (gentilizio?).

227. Suffisso -a-. — Tra i suffissi che accumulano più funzioni, il più produttivo è -a-, anche il meno preciso. I derivati, molto numerosi, con vṛddhi iniziale si distinguono prima di tutto: sono per la maggior parte aggettivi di appartenenza (relativi a, possedenti, provenienti da), così mānavá- “appartenente all’uomo” (da mánu-: trasferimento tonico, come in molti altri derivati, secondo 219); in secondo luogo astratti nt. su base aggettivale, mā́ghona- “generosità”, da maghávan-; eventualmente collettivi, ārtavá- AS. YV. “gruppo di stagioni”. In composizione, dāśarājñá- “battaglia dei Dieci Re”. Solo mancano, nei mantra più antichi, i derivati di nomi divini (a maggior ragione, di dvandva divini; per significare: appartenente a, consacrato a): raúdra- “dedicato a Rudra” è del Libro X, vaiśvadevá- “consacrato a Tutti gli dei” è di AS. YV.; tvāṣṭrá- è un patronimico; rimane mā́rutaṃ gaṇám (śárdhaḥ) dove l’aggettivo gioca il ruolo di un regime G. La categoria comprende un gran numero di designazioni tecniche e si situa nella stessa zona semantica dei composti.

228. Senza vṛddhi abbiamo degli aggettivi, in particolare su base in -s, paruṣá- “nodoso” da párus- (trasferimento tonico), tamasá- “tenebroso” da támas- (idem); alcuni rari astratti come hotrá- “funzione del hotṛ” (e presunto anche: “coppa [dove beve] il hotṛ”). Altrove, questo -a- senza vṛddhi è solo un elemento inorganico sostituito a una finale vocalica o aggiunto a una finale consonantica, ovvero un allargamento. Il fenomeno ha il suo posto privilegiato alla fine di un composto 163; ma avviene anche in “semplice”, sia autonomamente sia per influenza delle strutture compositive. Così varie finali, in condizioni variabili, presentano questo scivolamento verso -a-, favorito dalla presenza morfologicamente ambigua della desinenza di Ac. -a(m). Nomi in -as- diventando -asa- 201 n. 2 o -a- (áṅgira- = áṅgiras- nome proprio, cfr. ánāga- in composizione; sull’interscambio -as- / -a-, vedi 243); -us- diventando -uṣa- (náhuṣa- = náhus- nome proprio; una flessione mánuṣa- “uomo” s’inizia nei Libri I e X); -ant- diventando -anta- (pā́nta- “bevanda” tarantá- nome proprio dánta- “dente” [ip. tardivo]; incerto gmántā 1 122 11); -an- diventando -ana- (pūṣaná- X, eccezionale = pūṣán- nome proprio) o -a- (áhānām G. pl. “giorno”; in śīrṣá- “testa”, le poche desinenze attestate si spiegano con il pl. nt. śīrṣā́ che potrebbe essere stato percepito come “tematico”); -tṛ- diventando -tura- (Ac. yantúram da yantṛ́- “che guida”, spiegabile per analogia dei composti in °túr- e la vicinanza di aptúram); -u- diventando -va- (paśvá- come membro anteriore = paśu°, incerto). In -tra- e -ma-, l’allargamento ha condotto a nuove categorie suffissali 208 210. L’unica frequente, in “semplice”, è l’aggiunta di un -a- (-ā- nei nomi d’azione femminili) ai nomi-radice: quest’aggiunta, confondendosi nei nomi a valore “verbale” con il suffisso primario -a-197, rimane da considerare qui il caso degli altri nomi. Così mā́sa- “mese” come allargamento di mā́s- nell’AS., māṃsá- “carne” fin dalla RS. I, nāvā́- “barca” anch’essa dalla RS. I, ma divá- “cielo” non è confermato testualmente, se non in āmreḍita divé-dive sostituito a *divi-dvi; kṣapā́- “notte” e kṣípā- “dito” nel I. pl. kṣapā́bhis kṣípābhis, per evitare un contatto p-bh (evitato altrove da una consonante dissimilante 68 b 100); mahá- “grande” non ha sostituito che molto parzialmente máh-; ārjā́- AS. = ū́rj- RS., ecc. Il movimento tende ad intensificarsi nei mantra più recenti.

Da notare la parola bheṣajá- “rimedio”, tratta da bhiṣáj- alla maniera di un derivato primario, secondo lo scambio frequente del tipo viś-/veśá-.

229. Suffissi a -y-. — Il suffisso fondamentale è -ya- (particolarità accentuali 219). Come il suffisso -a-, spesso comporta la vṛddhi iniziale e forma quindi (oltre ai patronimici 226) un certo numero di aggettivi (daívya- “divino”; su nomi divini, almeno in YV. AS.: prājāpatyá- “relativo a Prajāpati”) e un numero maggiore di astratti (saúvaśvya- 218; ma in sā́ṃgrāmajitya- AS. “vittoria nella battaglia” di fronte al n. d’agente saṃgrāmajít-, la RS. avrebbe formato saṃgrāmajítya- secondo 171 fin.). Alcune di queste formazioni sono da considerarsi come un incrocio di -ya- senza vṛddhi con -a- a vṛddhi. Le forme senza vṛddhi sono comunque molto più numerose, se non nella categoria degli astratti (svarā́jya- “autocrazia”, almeno in quella degli aggettivi (nárya- “virile” satyá- “vero” ráthya- “proprio al carro” da cui “cavallo da tiro; ruota; ricchezza in carri”); con lo svarita, urvaryà- VS. “proprio ai campi”; pítrya- “paterno” 216; ibid. aryamyà-. Valori semantici fluttuanti.

A volte -ya- dà l’impressione di un semplice allargamento (come secondo 163 in fin di composto), così svápnya- AS. “sogno” (o: “nato dal sonno”?), cfr. in particolare gli aggettivi návya- “nuovo” pūrvyà- “antico” raddoppiando náva- pūrvá- (cfr. 69). In ávya- “relativo al montone” e aryá- (aryà- eccezionale) “proprio agli uomini del clan” (anche, con vṛddhi e valore etnico, ā́rya-), il suffisso è probabilmente in relazione con il -i delle basi ávi- arí-.

La metrica invita spesso a restituire -(i)ya- 34 a (tranne in ávya- aryá- sopra citati dove la base è in - i “consonantico” 266). Inoltre, il testo scritto dà talvolta -iyá- (o -íya-, raramente -iya- atono): prima, secondo 33 d, dopo un gruppo di tre consonanti, indriyá- “proprio a Indra” e (nt.) “forza o natura di Indra”, poi dopo un gruppo di due, cioè in condizioni foniche che avrebbero permesso di mantenere -ya-, almeno nel testo scritto: samudríya- “proprio all’oceano”; generalmente con doppione -ya-: mitríya- “proveniente dall’amico” / mitryà- “simile a Mitra” / mítrya- “amichevole”; aśviyá- “truppa di cavalli” / áśvya- “relativo al cavallo, consistente in –”. Da notare che l’uso astratto è insolito e nessun derivato in -iya- possiede la vṛddhi iniziale.

  1. Il gruppo in -ī́ya- è appena iniziato nella RS.: gṛhamedhī́ya- “proprio del sacrificio domestico”, da cui āhavanī́ya- AS. n. di un fuoco sacrificiale. Sugli ordinali in -ī́ya-, vedi 299.
  2. -eya- (vṛddhi e tono iniziale) esiste in alcuni nomi che possono essere formati sull’imitazione dei patronimici in -eyá- 226 (anche se con toni diversi), di solito su basi in -i-: maúneya- “stato di un múni”. Senza vṛddhi, sabhéya- “proprio dell’assemblea”, su sabhā́- (tema in -ā- come diverse basi di patronimico in -eyá-) e alcuni verbi di obbligo 365.
  3. -aya-* come estensione, in hṛ́daya- “cuore”, da hṛ́d- (partendo da *hṛ́di- [cfr. hā́rdi], come trayá- da trí-); gavyáya- “di vacca” avyáya- (= ávya-) “di pecora o di lana” (tánaya- 198?).

230. Suffissi -ka-. — Il suffisso di base è -ka-, con tono variabile. La vṛddhi iniziale è rara (un solo esempio chiaro nella RS. su base pronominale, 283) e si sviluppa debolmente dopo la RS.; l’oscuro sānuká- non può essere considerato. Inoltre, -ka- fornisce alcuni aggettivi di appartenenza, più o meno ben isolabili (probabilmente ántaka- “che mette fine”, epiteto di Yama nell’AS.); dei diminutivi (ossitoni), come kumāraká- “piccolo ragazzo”, spesso con una sfumatura caritatevole o peggiorativa (contesto osceno I 191 12 sqq.; magia nera I 133 3 X 133 1 sqq.). Più spesso semplici estensioni, in parte destinate a facilitare la flessione, dhénukā- AS. = dhenú-; anche qui prevale l’ossitonesi, iṣukā́- AS. “freccia”. L’uso in samāsānta 163 dovrebbe derivare da questo -ka- “esplicativo”, che si sviluppa soprattutto nei mantra post-rgvédici. Il genere del tema di base è mantenuto, dando l’impressione vaga di avere a che fare con un infisso, come nelle formazioni parallele su base pronominale 283 293. In generale, i derivati in -ka- sono mal differenziati e spesso poco chiari.

Da notare, su participio, pravartamānaká- (unico es. nella RS., Libro I) dove il suffisso è trascinato da quello del nome vicino kuṣumbhaká-. Si tratta di ottenere con questa ripetizione un certo effetto drammatico.

Il doppione -ika- ha le stesse caratteristiche; forma alcuni nomi a vṛddhi, dall’AS., in valore di aggettivi di appartenenza, in particolare per indicare stagioni: vā́rṣika- AS. “appartenente alle Piogge”. L’uso diminutivo è più raro, usriká- (I) “piccolo bue”; lo stesso per l’uso “esplicativo”. Cfr. nā́sikā- “narici” partendo da nā́sā- AS. “naso”. Tutto l’uso di -ika- sembra rifatto sul femminile -ikā- ottenuto secondo 233.

  1. Esiste un -ka- primario, con tono radicale e grado pieno, in alcune parole come śúṣka “secco” ślóka- “appello” (da ŚRU-) e cfr. alla fine del composto suméka- “ben fissato”; eventualmente -ika- in vṛ́ścika- “scorpione”; -aka- primario inizia ad apparire in abhikróśaka- VS. “che insulta” gáṇaka- NS. “astrologo” (su base denominativa); nessun esempio sicuro per la RS., il caso di pāvaká- “purificante” è soggetto a cautela 43; infine -uka- primario da ghā́tuka- AS. (su base “causativa”) “che è in stato di uccidere” o “di cui c’è il rischio che uccida” (rettore Ac.); variante -ū́ka- su base intensiva, da jāgarū́ka- “vigilante”, unico esempio attestato nella RS. Su tutti questi punti, la lingua dei mantra fa solo iniziare un uso.
  2. -īka- (primario?) in dṛ́śīka- “degno di essere visto” e (nt.) “fatto di vedere” (anche -īkā́- f.). La parola deve essersi formata sull’imitazione del tipo abhī́ka- “presenza; momento critico” prátīka- “viso”, che è una derivazione tematizzata del grado debole dei nomi-radice in -añc- 195. Similmente, ekākin- “solitario” deriva da un *ekāka-, derivato da *ekāñc-, fatto come upāká- “vicinanza” e simili. Eccezionalmente, con vṛddhi, mārḍīká- “favore”: in realtà, derivato in -a- partendo da mṛḍīká-.
  3. -taka- (f. -tikā-) in mṛ́ttikā- VS. = mṛ́d- “argilla” e nel derivato pronominale “diminutivo” iyattaká- “così piccolo” (gemmazione espressiva?) Ma cfr. 233 a).

231. Gruppi minori. — Diversi suffissi che restano da vedere sono comuni con impieghi primari e mal distinti da questi. Così -rá-, che forma alcuni aggettivi possessivi come pāṃsurá- “polveroso” (da pāṃsú-: spostamento di tono!), dhūmrá- 214 tāmra° ibid.; eventualmente -āra- nel nome di funzione karmā́ra- “fabbro”, -ira- in médhira- “saggio” (da medhā́-) rathirá- “che va in carro” (ma dove r potrebbe derivare da *rathar, cfr. ratharyáti e d’altra parte rathī́- “cocchiere”).

  1. La vṛddhi di ā́gnīdhra- “funzione (o: coppa) dell’agnidh” si spiega partendo dal nome dell’officiante *agnīdhra- (doppione di agnídh-); la finale -dhra- è stata percepita come -ddhra-, cioè contenente lo stesso suffisso -tra- che si ha in hotrá- 228 e simili.
  2. Con -lá-, l’unica forma comune nella RS. è bahulá- “abbondante” (bahura- 67). Inizio di impiego diminutivo (peggiorativo) in vṛṣalá- “pover’uomo” (X) śiśū́la- (da śíśu-) “piccolo bambino” (X) kanyálā- AS. (finale del tema di base abbreviato) “cara figlia”. Con -ilá-, piśaṅgilá- VS. “bruno”.

-śá- è quasi esplicativo in yuvaśá- “giovane” etaśa- nome proprio (tono!) e alcuni altri; possessivo romaśá- “peloso; membro virile”, forse hirīmaśá- “giallo” da *hirīman- var. di harimán- (-śá- fornisce volentieri aggettivi che designano colori).

-mná- in dyumná- “splendore del cielo”, possibile estensione di un *dyuman- = dyumánt- “splendente”. Ma in nṛmṇá- “virilità” e, su particella, sumná- “favore” nimná- “depressione del suolo”, si tratta di un suffisso autonomo.

Un suffisso secondario -na- appare solo: a) in alcuni derivati di avverbi, come víśuṇa- “diverso” da viṣu° e probabilmente samāná- “comune” da *sam(ā)-, b) con vṛddhi iniziale, straíṇa- “femminile”; c) apparentemente in dámūnas (estensione, in -s) “domestico”, da dam-ū (duroṇá- “casa” fatto su un N. pl. dúras “porta”?).

  1. nara- probabilmente in svàrnara- “spazio celeste; etereo” (o secondo elemento nar- “forza” come 163?).
  2. -ta- in hemantá- “inverno” su una base heman, secondo vasantá- “primavera” dove l’esistenza di vasan è in qualche misura confermata da vasar° vāsará- “mattinale”; infine dvitá- ecc. 298.

-ima- è derivato da alcuni nomi in -tra- per designare ciò che risulta da un lavoro manuale, khanítrima- (-tríma- AS.) “prodotto scavando”; da cui -(r)ima- primario, su base verbale in -t(a)-, kṛtríma- “artificiale” pūtríma- AS. “purificante”.

232. Formazione del femminile. — La formazione del femminile è una questione di derivazione secondaria, se si escludono alcuni nomi di animali (come gó- “bovino, vacca”) che sono epiceni, e alcuni nomi di parentela (in -[t]ṛ-) che hanno un tema femminile distinto. La maggior parte degli aggettivi e quei sostantivi che per natura comportano l’espressione del femminile, utilizzano un suffisso ā o -ī-.

I temi in -a- usano -ā- senza modificazione del tono, tipo priyā- “cara”: priyā́-. Ma una serie di temi in -a- impiegano , talvolta senza modificazione, più spesso con inversione del tono (vṛkī́- “lupa” da vṛ́ka-), inversione che di solito conduce una base ossitona ad adottare il tono sull’iniziale (áruṣī- “rossastro” da aruṣá-). Questi sono principalmente molti sostantivi (vṛkī́- sopra citato) o aggettivi sostantivati: aśvatarī́- AS. “mula” (rispetto ai femminili di comparativi in -tarā-), viliptī́- AS. nome di un tipo di mucca e vilīdhī́- AS. nome di un tipo di donna (rispetto ai femminili di nomi verbali in -tā-), anudéyī- (X) “dono successivo” (rispetto ai femminili di verbi d’obbligo in -yā-). Inoltre alcuni aggettivi: molti di quelli che designano colori (áruṣī- citato), tutti quelli con vṛddhi iniziale (tranne pā́rthivā- “terrestre”, che raddoppia -ī-), la maggior parte degli ordinali 299, molti nomi di agente, primari con suffisso -a- (soprattutto dove un -a- radicale è allungato), °kārī́- VS. “che fa…”, annādī́- AS. “che mangia il cibo”, nomi di agente primari in -ana-, specialmente nell’AS., infine nomi con suffisso -yà- (o, che è lo stesso, -íya-) — dove -ī- si sostituisce a -ya—: svarī́- “che risuona” da svaryà-.

  1. Stessa conclusione per alcuni derivati in -ya- diversamente accentati, daívī- “divina” (daívyā- X) da daívya-, ā́rī- “ariana” da ā́rya- (anche ā́ryā-).
  2. Cambiamento del tono motivato dal cambiamento di categoria grammaticale, aśvatarī́- citato, aparī́- 387.

Infine i bahuvrīhi il cui membro anteriore è un nome di parte del corpo impiegano -ī́-: caturakṣī́- AS. “a quattro occhi”. A volte c’è una ricerca di opposizione tra tatpuruṣa e bahuvrīhi: cfr. le finali in °vācanā́- e analoghe, dei bahuvrīhi, quelle in °hárṣaṇī- e altre, dei tatpuruṣa (soprattutto nell’AS.).

Śvaśrū́- (finale come vadhū́-) “suocera” si basa su un *śvaśṛ- evoluto in śváśura- (come yantúra- da yantṛ́- 228).

233. Alcuni gruppi ristretti presentano un suffisso speciale al femminile: a) -ikā- in iyattikā́- 230, forse secondo śakuntikā́- “piccolo uccello” dello stesso hymn., che si basa su śakúnti- con il diminutivo normale in -kā̆-. Un -ikā- come controparte dimostrativa di -(a)ka- inizia veramente solo con l’AS., e in modo molto limitato: kumārikā́- “piccola ragazza”, avacarantikā́- “discendente” (su participio!). b) -ni- in alcuni aggettivi di colore (sostantivati), come controparte maschile in -ta-, tipo śyénī- (“la bianca”) come designazione dell’Aurora (?), di fronte a śyetá- (ma cfr. anche il maschile śyená-, con un altro senso). In róhiṇī- (“la rossa”) háriṇī- (“la fulva”) ci si può chiedere se -nī- sostituisca -ta- o non sostituisca piuttosto un altro femminile in -(i)t-, harít- “cavalla saura” (da hári-), da cui rohít- “giumenta rossa”. Infine, in alcuni altri termini, la finale -nī- si aggiunge precisamente a una finale -(i)t (altrimenti non attestata singolarmente) dissimilata in -(i)k secondo 78: così ásiknī- (“la nera”) n. di fiume di fronte a ásita-, hárik-ṇikā- AS. (Libro XX) di fronte a hárita-; più liberamente, páruṣṇī.- (“la nodosa”), altro n. di fiume. c) -āni- su diversi nomi di divinità, indrāṇī́- “moglie di Indra”, ecc.; da cui, più liberamente, araṇyānī́- (anche -āní-) (X) “Genio della Foresta” e (su tema consonantico) ūrjā́nī- (I) “Forza nutritrice” (tono!).

234. Su temi diversi da quelli in -a-, è impiegato il suffisso -ī-, ad esclusione di -ā-. Ma in modo diversificato. Il trasferimento del tono avviene solo nei casi in cui si verifica anche durante la flessione, ovvero: a) per passaggio di una vocale tonica alla fine della base allo stato consonantico come 239 c; b) nel caso dei nomi in -ánt- come 240 e; c) nel caso di una parte dei nomi in -áñc- secondo le tendenze indicate 239 b. Lo spostamento del tono delle monosillabe (239 a) non si applica al femminile, perché i femminili in -ī- da monosillabi sono tutti su temi composti, e la mobilità tonica è ostacolata 156 239 n. 1. Infine, può verificarsi un trasferimento di tono per cambiamento di categoria grammaticale, come in gómatī́- nome proprio di fronte a gómatī- “dotato di vacche”.

Non esistono femminili espressi nei nomi in -as- (aggettivi o membri finali di bahuvrīhi). Nemmeno nella generalità dei nomi in -i- e in una parte dei nomi in -u- (quelli in particolare usati come membri finali). Tuttavia:

a) tra i nomi in -i-, páti- forma il femminile pátnī- “padrona; moglie”. La finale di base si adatta in vṛddhi in agnā́yī- “moglie di Agni” e vṛṣākapāyi (V.) “moglie di Vṛṣākapi”. Abbiamo notato sopra il -t che indica il femminile in harit-, da cui rohít- e forse yoṣít- “giovane donna”, quest’ultimo come doppione di altri femminili: yóṣā- yóṣan- yóṣaṇā-. Infine, l’allungamento di -i- in ávī- SS. “pecora” di fronte a ávi- (f.) RS. deve derivare da uno spostamento flessionale.

b) tra i nomi in -u-, la finale -vī́- è frequente negli ossitoni con suffisso -u- primario (o presumibilmente primario), tipo pṛthvī́- “vasta” da pṛthú- (da cui pṛthivī́- 45) o pūrvī́- (ū 37).

  1. Ma gli ossitoni in -su- -yu- allungano la vocale finale, almeno nella RS.; inoltre, nṛtū́- “danzatrice” e alcuni altri (sostantivi), sull’imitazione del tipo vadhū́-.
  2. Insoliti jahnā́vī- “figlia(?) di Jahnu”, con la stessa evoluzione di agnā́yī- sopra; quanto a pūtákratāyī- Vāl. (lezione incerta) “figlia (?) di Pūtakratu”, la finale è analoga; infine, mā́dhvī- “dolce” ha una vṛddhi iniziale apparente, che deve derivare da mādhvī (V. du. in.), epiteto degli Aśvin, anch’esso difficile da spiegare.

235. Per quanto riguarda i nomi-radice, la regola è anche l’assenza di movimento. Così, strettamente, nei nomi di carattere “verbale”, cioè i nomi di agente, tranne °ghnī́- “che uccide” (da °hán-) che si ispira ai temi derivati in -an-.

Sadṛ́śī- “simile” (293) implica un maschile sadṛ́śa - (post-mantrico), mentre sudṛ́śī- “bella da vedere” segue il modello di sadṛ́śī-. Allo stesso modo mahī́- “grande; terra” è fatto su mahá. Incerto ámucī- AS. “che non rilascia”. Le finali in °ūhī- YV. (dityauhī́- e analoghe 259) non sono più percepite come radicali. Infine, il tipo pratīcī́- 259 utilizza una base femminile in vocale lunga + c, che è comunque distinta dalla base maschile in °añc-.

In fine di bahuvrīhi, alcuni nomi-radice formano -ī-, come apádī- “senza piedi” e analoghi (Libri I e X, la RS. antica aveva °pád-). Qui, come altrove, si tratta di distinguere il bahuvrīhi dal tatpuruṣa. Altrove, cioè nella maggior parte dei temi consonantici non radicali, è -ī- che si impone. Il suffisso si attacca, in caso di base alternante, al grado ridotto come gli altri suffissi secondari, così °rā́jñī- “regina” (e anche śunī́- AS. “cagna”, come G. śúnas) °vṛṣṇī- (in hatá° “[femmine] il cui toro è stato ucciso”).

  1. L’uso del femminile è relativamente raro, in particolare negli aggettivi in -man- -van-; è dubbio che bráhmī- “pia” sia il femminile autentico di brahmán-, quindi = *brahmnī-, così come atharvī́- quello di átharvan- n. di un officiante. Al contrario, un’apposizione come vṛ́saṇam… tvácam I 129 3 non prova che la finale -an- sia realmente usata come femminile; al massimo in yóṣan- 243 e due o tre finali di bahuvrīhi come rapśádudhabhis (dhenúbhis) “[(vacche) con le mammelle gonfie]” (unico caso chiaro della RS.). È diverso nelle finali in -man- che, in fine di bahuvrīhi, sono epiceni nella RS., a meno che non si tematizzino in -ma-; l’AS. inizia a normalizzare in -mnī-, almeno in °nāmnī- “che ha per nome…”. Ci sono anche alcuni epiceni, in fine di bahuvrīhi, in -van- (e una volta in semplice, indhanvan- f.), ma la soluzione usuale è ben diversa, vedi di seguito.
  2. Il femminile ordinario dei nomi in -van- (sia semplici che in fine di composto, inclusi quelli come saṃśíśvarī- “che ha un vitello in comune” dove l’elemento -v- probabilmente non è suffissale) è -varī-: sūnṛ́tāvarī- “generosa” o “vivace”, di fronte a *sūnṛtāvan-. Riflesso di un’antica alternanza an/ar 278.

I nomi di agente in -tṛ- (-tṛ́-) formano -trī- incluso nā́rī- “donna” da nṛ́- (che ha la stessa vṛddhi di agnā́yī- sopra); aberrante trā́triṇī- Kh. p. 67 e 119 “che salva”. Ci si aspetta -atī- (-atī́-) nei nomi in -ant-(-ánt-), ma i participi della flessione bhávati ristabiliscono la nasale per influenza delle finali personali in -ant- 324: mádantī- “che si inebria”, caus. e denom. vājáyantī- / vājayántī-, ecc.

  1. Da qui alcuni fluttuazioni, come rébhatī- (presente rébhati) nei Kh.; generalmente a favore della forma con nasale, siñcántī- (accanto a siñcatī-) di SIC-, abhiyántī- AS. (accanto a yatī́) di I-, svapántī- AS. di SVAP- (cfr. ibid. svápantu), pṛṇántī- di PṜ-, e alcuni altri.
  2. Aberranti: naptī́- “figlia” da nápāt- / náptṛ-; máhiṣī- “principessa”, probabilmente da máhīyas-; yuvati- 249.

Da notare infine che esistono tracce di un -ī-, apparentemente accrescitivo-collettivo di origine, ma praticamente, esplicativo, attestato in sarasī́- “lago” táviṣī- 202 śavasī́- “forza (personificata)” jyóisīmant- AS. “splendente”, forse ródasī- 201: quindi sempre su basi sigmatiche (anche róhiṣī- TS. “crescita” avyáthiṣī- KS. “non vacillamento”, ma che possono essere spiegate dalla “perseveranza”).

Su altre basi: duratimanī́- VS. “carestia” (anche analogica alle parole circostanti) durarmaṇī́- AS. “misera” vājínī° “grande bottino?” e śipriṇī° (significato?) (anche śipriṇī- in semplice, apparentemente usato come maschile, così come návyasī-, epiteto dei Marut, = návyas-).






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