sanscrito vedico

formazione del nome



II - DERIVAZIONE PRIMARIA

188. Generalità sulla derivazione. — Nella misura in cui un nome è analizzabile all’interno della stessa lingua, talvolta si riduce alla radice verbale (è, come si dice, un nome-radice), con o senza allargamento; altre volte e più spesso, termina con un suffisso. Questo suffisso stesso è primario o secondario. I derivati primari (kṛt) — quelli che si attaccano alla radice verbale (subordinatamente a un tema di presente, ecc. 191 sq.) — hanno un valore derivante dalla loro origine stessa: forniscono nomi d’azione e nomi d’agente; alcuni usi rimangono così vicini al verbo che fanno più o meno parte della coniugazione (questo, al massimo, nei “participi”); altri si allontanano invece per adottare valori più o meno liberi di aggettivi, nomi di oggetto o di strumento, ecc.

I derivati secondari (taddhita) sono quelli che si attaccano a un tema nominale già esistente (o virtualmente esistente) per formare, sia nozioni di appartenenza (aggettivi indicanti il possesso, la qualificazione), sia nozioni astratte (sostantivi), con vari usi specializzati. In casi particolari si può esitare sull’adesione di una parola alla serie primaria o alla serie secondaria, con molti suffissi comuni e la stessa forma, a seconda che sia percepita come radice o come nome-radice, potendo dare origine a derivati di uno o dell’altro genere. D’altra parte, ogni aggettivo, anche primario, può al neutro servire da sostantivo astratto (così il nt. paraspá-VS. “protezione” è glossato da paraspatvá- ŚB.). Ma nel complesso la scissione è chiara, sia per la forma che per l’uso. Ci sono poche tendenze generali, se non la tematizzazione abbastanza frequente della finale: è così che non ci sono suffissi stabili terminati con una occlusiva, eccetto i suffissi in -nt- dove la t è caduta foneticamente. Non ci sono neanche tendenze toniche globali. I valori sono nel complesso debolmente marcati, le formazioni concorrenti numerose e una stessa finale suscettibile di usi diversi.

189. Generalità sulla derivazione primaria. — Nella misura in cui la radice comporta delle alternanze vocaliche, essa appare, ai fini della derivazione primaria, sia con il grado pieno (e o ar an o semplicemente a davanti a consonante, a volte ā), sia con il grado ridotto (i u ṛ a, eccezionalmente vocale zero).

Non esiste un grado lungo autentico, cioè altro che l’allungamento eventuale, nato dal ritmo, di un -a- radicale in sillaba aperta, il quale ha luogo in particolare nei nomi-radici e nei derivati in -a- -ana- -as- -in- (225) -ya- (365). Jaitra- “vittorioso” deriva da jétṛ-, come śraúṣṭī- “docile” è il f. di un *śrauṣṭa- derivato da śruṣṭi-; cyaútna- “sgomento” può a rigor di termini basarsi su un aggettivo *cyutna-; bhā́rman- “libagione” śā́kman- “forza” hanno il vocalismo imitato da bhārá- śā́ka-. Resterebbe kā́rṣman- “scopo” e alcuni rari altri.

Il tono è in principio sulla radice nei nomi d’azione, sul suffisso nei nomi d’agente. Ma questa distribuzione è ostacolata dalla legge meccanica che porta ad accentuare il suffisso se il radicale è al grado ridotto, il radicale se questo è al grado pieno. Entrambe le abitudini non sono senza eccezioni. Un suffisso dissillabico che porta il tono, lo porta in principio sulla sillaba penultima; ci sono però delle ossitonie in alcune categorie.

  1. Quanto alla presenza del preverbo — molto frequente in certi tipi di derivati e tanto più (in generale) quanto il valore è più nettamente “verbale” — essa non modifica normalmente la posizione del tono: tuttavia, i derivati in -ti- hanno quasi tutti il tono sul preverbo (come i verbali in -ta- 363 e gli infiniti in -tu- 370-72); così anche i derivati in -man- 207 -īyas- 213.
  2. La sillaba raddoppiata (come nel verbo) attira il tono abbastanza spesso, specialmente quando il raddoppio è di tipo intensivo.

L’uso “primario” è variabilmente marcato a seconda delle categorie suffissali o all’interno di una stessa categoria. Una caratteristica sintattica notevole, disegualmente distribuita, è la presenza di un regime diretto all’Ac. 404; un’altra, l’uso, altrettanto variabile, di derivati primari come membri finali di tatpuruṣa “verbali” 171 sqq.

190. Oltre ai suffissi, esiste un allargamento in -t- 195 — eventualmente -at- -it- — che non solo funziona alla finale assoluta, ma si attacca anche a un suffisso primario per formare le serie in -tnu- -tvan- (224) -tyā̆- (incluso il verbale di obbligo 365 e l’assolutivo 374).

-y- è meno un allargamento che un elemento tampone tra un -ā finale di radice e la vocale iniziale del suffisso, in particolare di -as- (dhā́yas- “libagione”) e -u- (pāyú- “che protegge”): il punto di partenza risiede nella struttura preistorica di alcune radici poste in -(ā- finale. Cf. anche -yin- 225 n. 2.

Per quanto riguarda la vocale -i- che comunemente si chiama “di collegamento” e che è il residuo del grado pieno delle radici dette “dissillabiche” 302, essa funziona nella derivazione primaria come un elemento avventizio, posto davanti ai suffissi che iniziano con una t-, incidentalmente con una s-, in accordo più o meno preciso con gli elementi -i-t- e -i-- del verbo personale. Invece di -i- si ha spesso (molto più spesso che nel verbo) -i- in condizione ritmica favorevole (anche in nomi propriamente verbali 363 370 373). Altri contatti tra la vocale finale del radicale e la vocale del suffisso sono evitati tramite qualche modifica della struttura radicale attesa.

La giunzione tra la base e il suffisso avviene secondo il regime fonetico interno, riserva fatta per i verbali in -na- 46 124.

  1. Ci sono tracce, non senza ambiguità, di una sonorizzazione della palatale in vagnú- e analoghi 124; più probabilmente in śagmá- “efficace” di ŚAK- (e śágman- Nigh.).
  2. Il grado pieno di una radice terminata in -u- è -av- davanti al verbale in -ya- 365: influenza del trattamento dei temi in -u- davanti a suffisso secondario 214.

191. Temi verbali. — Senza parlare dei participi, numerosi derivati primari, almeno nella classe dei nomi d’agente (più raramente, dei nomi d’azione) adottano come base un tema verbale. È così che il suffisso -ú-, funzionando pienamente come participio, utilizza comunemente i temi della coniugazione “derivata”: causativi, desiderativi e soprattutto denominativi (circa 80 di questi ultimi), tipo iyakṣú- “che vuole raggiungere”, bhāvayú- “che cura”, manasyú- “che ha in mente” (una forte proporzione dei denominativi non è attestata esclusivamente che nel derivato in -u-). I nomi d’azione in -ā́- servono parallelamente, ma con ben minore produttività: apasyā́,- “attività”. Diversi suffissi d’agente si impiegano su base causativa: così -a- (alla fine di tatpuruṣa “verbale”), -tṛ- (ossitono), -iṣṇu- itnu- -ālu-; capita anche, in altre serie, che un derivato primario abbia il senso causativo senza portare alcuna caratteristica formale di questa modalità.

Le basi raddoppiate sono frequenti, senza che si possa sempre collegarle sia a un presente, sia a un perfetto o a un intensivo; molte possono essersi sviluppate liberamente. Qui si trovano soprattutto il suffisso -a-, poi -i-, occasionalmente -u- e alcuni altri (compreso il suffisso zero dei nomi-radici).

  1. Si spiegherà con il perfetto una forma come nitatni (V.) AS. “che si estende in profondità” (°tatnu- paipp. XX 37 5 e paritatnú- AS. “che circonda”); inoltre alcune basi con radicale -e- secondo 334: come sedí- AS. VS. “esaurimento”, mehánā “riccamente”. Táturi- “che attraversa” è incerto, potendo includere un suffisso -uri-.
  2. Su tema di futuro si ha eventualmente kariṣyá- “ciò che è da fare”, ma si tratta piuttosto di un congiuntivo kariṣyā́(s); saniṣyú- “che vuole ottenere” è più probabilmente un denominativo che un futuro. Su passivo, avidriyá- 38.

192. Il gruppo più numeroso è quello delle formazioni in -a-, derivate da vari temi di presente e utilizzate alla fine di un composto nominale o dopo un preverbo 172: le forme chiare sono naturalmente quelle in cui il tema di presente si segnala con un affisso o un raddoppiamento (incluso govyachá- VS. “tormentatore di mucche”, che postula un presente vyachati 327), ma anche presenti debolmente segnati come uttudá- AS. “che incita” fanno parte del gruppo.

La derivazione a volte va oltre le possibilità del verbo. Si ha così un derivato varūtṛ́- (várutrī-) “che difende”, fatto su *varoti che sarebbe analogo a karóti 320; tarutṛ́- “vincitore” e analoghi devono appoggiarsi sul tema verbale táruṣ(a)- 329; altra formula in manótṛ-/manotṛ́- “che realizza con il pensiero”, di fronte al tema verbale manu-, forse secondo le numerose formazioni nominali in mano°.

Alcuni derivati implicano una base in -s-, che nella maggior parte dei casi non si può semplicemente considerare come base di aoristo. Così néṣa- “che conduce” deriva dal tipo néṣi 316, tramite (se si vuole) le forme verbali in néṣa- che hanno costituito un sistema aoristo secondario (cf. no neṣan néṣatamaiḥ I 141 12). La stessa base spiegherebbe néṣṭṛ- n. dell’ufficiante “che conduce”. Analogamente jeṣá- “guadagno”; in deṣṇá- “dono” è stata utilizzata una base verbale *deṣa(m) fatta come yeṣam 344, e forse anche déṣṭha- “che dona il meglio”. L’elemento dās- (in dā́svant- “generoso”) si basa sulla base verbale dāsa- (di aoristo?), ma dhāsí- f. “forma” e dhāsí- m. “nutrimento” hanno un -s- autonomo, come quello che si ritrova ancora in śruṣṭí- “obbedienza” (cf. śróṣamāṇa-), in táruṣa- e simili “che vince” (cf. il tema verbale táruṣ(a)- citato), cf. 329.

Diversi derivati sembrano essere nominalizzazioni di infiniti, così parṣáṇi- “che fa attraversare” 372, turváṇi- (tuturváṇi-) “che supera” 370 trascrivono direttamente infiniti in - ani -ane, mentre stuṣéyya- 366 estende stuṣé 316; in modo più lontano, suhántu- e analoghi 171 appartengono qui.

193. Nomi-radici. — I nomi-radici funzionano in due modi: come nomi d’azione (f.), vṛdh- “rafforzamento”; e come nomi d’agente (m.), spáś- “spia”. Spesso si sovrappongono entrambi i valori, così yúj- “alleato, compagno” e talvolta anche “alleanza”. L’accezione di agente è spesso solo apparente: il significato proprio di srídh- mṛ́dh- ríṣ- spṛ́dh- dvíṣ- è “ostilità” (con varie sfumature) piuttosto che “nemico”, anche se vi è eventualmente passaggio secondario al maschile.

Le forme semplici sono molto meno numerose rispetto agli usi in fine di composti: questi formano tatpuruṣa “verbali” 171 o, se il senso “verbale” del nome-radice si è attenuato, tatpuruṣa nominali o bahuvrīhi: così vā́c- “parola” o rā́j- “re” si usano liberamente, come sostantivi qualsiasi, alla fine di bahuvrīhi.

  1. Sull’uso passivo del n. d’agente, v. 171; sul valore di infinito del n. d’azione, 369 sqq; sopravvivenza di un regime diretto (dopo preverbo solo), 404.
  2. Le radici in -ī- -ū- finale forniscono in forma “semplice” solo alcuni rari nomi-radici, come i m. vī́- “che si compiace” (dopo preverbo suprāvī́- “che persuade bene” cf. prá vihi nello stesso hy. H 26 2), jū́- “che si affretta”. Quelle in -ā- finale conservano una proporzione leggermente più elevata di forme semplici, ma molte sono scivolate verso la finale -a­ o -i- (eventualmente -u- 22 n. 4).
  3. Su radice raddoppiata si hanno alcune forme come cakrád- (X 95 42-13, contro il pdp.) “lamentela”, in particolare forme intensive, yavīyúdh- “che combatte con forza”, jógū- “che canta potentemente”.

194. Il tono rimane sulla radice anche in caso di preverbo o di raddoppio (eccetto negli intensivi yógū citati, vánīvan- 258). La radice è di solito al grado ridotto, qualunque sia il significato, dove tale grado è possibile secondo le forme verbali pertinenti. Ma una -ā finale si mantiene e di solito anche una -an (non esiste nome-radice in -am, tranne dám- “casa” passato a dán secondo 101 e śám mantenuto come interiezione). Accanto ai composti in °yaj-, la forma ridotta attesa in °ij- è conservata solo nell’antico nome tecnico ṛtvíj- “officiante”. Un a davanti consonante è spesso allungato: in °bhā́j- il grado lungo è il segno di un impiego fattitivo “che ripartisce” di fronte a °bháj- “che ha parte a”; ma altrove -ā- è puramente ritmico, o portato da qualche analogia, dalla predominanza dei casi forti e in particolare del N. sg. 259 (cf. 161 per °sāh- °vā́h-). Quasi ovunque si tratta di forme composte, tranne in vā́c­ citato.

  1. Tranne in °bhā́j- e forse in uno o due altri casi, il valore causativo non è formalmente segnato: nivíd- n. di una formula deve derivare da -veday-, °cyút- “che mette in moto” corrisponde a cyāvay-,
  2. Grado pieno insolito in (a)bhog° “che non dà”.

195. Senza parlare dell’allargamento in -s- (das[vant]- 192 suprajās[tvá]- 163 bhīsā́ [I.] “paura” 357), l’allargamento caratteristico è -t-, che compare dopo le radici terminate da una vocale -i- -u- --, tipo divikṣít- “che abita in cielo”; la finale -ā- delle radici terminate in nasale evita la soluzione -at, sia mantenendo -an 194 (vṛtrahán- “che uccide Vṛtra”), sia adottando la finale -ā (vale a dire, nelle radici in -an[i]- 23); doppia soluzione in gośán- / goṣā́- cf. 258. Tuttavia, c’è traccia di -á-t-, molto probabilmente, in saṃhát- “serrato, piegato” e nell’avverbio dyugát “che va al cielo”; -át- è inoltre da postulare per spiegare le finali -átyā (assolutivo) e -átya- (°hátya- “fatto di uccidere”).

Questo allargamento manca nelle radici dove -i- -u- risultano da un abbreviamento secondario (composti in °bhu- di BHŪ-), o sono di origine nominale (composti in °gu- di - “vacca”), o sono dovuti a qualche anomalia, ásmṛtadhru- 100, suṣṭu- (“ben lodato” ?) che è prob. da leggere *suṣṭhu- (di STHĀ-), didyú- “freccia” (accanto a didyút- “lampo”) apparentemente da una radice *div- “lanciare”.

  1. Pṛtanāji- AS. è in realtà pṛtanā́j- “che si affretta in battaglia”, come mostra la var. di RS. Le altre finali in -i- -u- provengono da radici in -ā- (22 e n. 1) e non rientrano qui in considerazione
  2. Soluzione per -u- in raghudrū́- (m.) “che corre velocemente” di DRU- e alcuni altri.
  3. Un allargamento in -át-, indipendente dal participio, ma probabilmente in relazione con un tema di presente tematico, avviene in vahát- “corso d’acqua” saścát- “prosciugamento” e alcuni altri, -ít- è incerto: sarit- “fiume” può dipendere dal tipo harít- 234, taḍit- “vicino” è di appartenenza dubbia, bodhít- (bodhínmanas- “con spirito attento”) sembra dovuto a cikít- di CIT-, che si è allargato anche in cikitvít (avverbio. 391 e cikitvínmanas- “id.”) partendo da cikitú-.

I nomi-radici in -añc- (propriamente “inclinato, piegato verso”) giocano il ruolo di quasi-suffissi, prima dopo preverbi con valore locale (pratyáñc- “rivolto contro, occidentale”), poi dopo alcuni pronomi e nomi. Da pratyáñc- deriva tiryáñc- AS. “trasversale” (partendo dall’avverbio tirás); da tiryáñc-, kadryáñc- “diretto dove?” madryáñc-283; da questi, devadryáñc- allargando devā́nc- “rivolto verso gli dei” e madryadrík 391, sviluppo interno di madryák, ecc.

Il femminile in --, indipendente all’origine (gṛtā́cī- “dall’aspetto di burro”), va di pari passo con le forme deboli della flessione 259, e comanda i nuovi derivati in -ka- 230, -īna- 221 (- ya- in apācyá- “rivolto verso ovest” apīcyá- “segreto”).

196. La categoria dei nomi-radici è abbondante, ma in rapido declino, come dimostra la crescente frequenza delle formazioni tematiche concorrenti (°sāhá- da X), delle formazioni con vocale finale lunga abbreviata o modificata. L’indeterminatezza morfologica dell’Ac. sg. in -am ha contribuito a questo movimento. Esiste un gran numero di termini isolati, senza paradigma, tra cui creazioni istantanee come bhinátbhídaḥ I 174 8 “rompe i rompimenti”. Molti sono frammenti di derivati primari, in particolare in -as-: considerando áṃhaḥ come un N. pl. (f.) si è formato un pseudo-nome-radice áṃh- (Ab. áṃhaḥ) “angoscia”, come nábh- “nuvola” (anche nā́bh- “apertura”?) partendo da nábhas; úṣ- “aurora” 243 n. 2.

A volte il nome-radice è appena percettibile: *akṣ- “occhio” è mascherato da akṣí tranne che nell’hapax anák 163; úd- 277; ā́s- “bocca” conservato quasi esclusivamente nell’avverbiale I, ecc. *Nak-t- “notte” è attestato solo in nák VII 71 1 (e in nákṣatra- “costellazione” = *nak-kṣatra-); altrove si hanno gli allargamenti naktam e náktā (che potrebbero in linea di principio essere spiegati direttamente sul nome-radice), poi náktīḥ). (su rā́trīḥ), naktábhiḥ (su áhabhiḥ), naktayā́ 386, aktú-(= akt-u). Gli allargamenti r/n, i/n 277 sq. sono stati un fattore potente nella scomparsa del nome-radice. I nomi a supporto verbale si sono mantenuti meglio degli altri.

197. Suffisso -a-. — Abbondante, ma scarsamente organizzato, è il suffisso -a-, che comprende: a) nomi d’azione a grado pieno e tono radicale (tono finale di solito se c’è un preverbo: nikāmá- “desiderio profondo”), tipo háva- “invocazione”. Sono msc., tranne bhayá- (attenzione al tono!) “paura” che è nt., e háva- stesso che sembra alternare un sg. msc. e un pl. nt.; b) nomi d’agente, spesso evoluti in aggettivi, a grado pieno come i precedenti, ma con tono suffissale, codá- “incitatore” (rispetto a códa- “incitazione”). Tracce di tono sul preverbo, níkāma- “che desidera”.

L’allungamento avviene nelle condizioni descritte 189, tipo kā́ma- già citato, nā́yá- “che guida”; ma è incoerente: grábha- “atto di afferrare” accanto a grābhá- “che afferra”. La tendenza all’ossitonèsi è molto marcata, qualunque sia il significato.

  1. Per quanto riguarda il grado ridotto, che ci si aspetta nella classe a tono suffissale, si trova in diversi aggettivi o nomi concreti privi di attacco “verbale”: śucá- “brillante”, yugá- nt. “giogo”. Sono in parte derivati secondari; molti sono ispirati ai temi di presente del tipo tudáti.
  2. Numerose formazioni raddoppiate, quasi tutte con funzione di aggettivo e a tono suffissale. Il raddoppio è molto spesso intensivo, sia della stessa struttura che nella coniugazione (rerihá- AS. “che lecca continuamente” sarīsṛpá- “che striscia”), sia (più raramente) di altra struttura (carācará- 166).
  3. Un tipo semantico speciale è quello di sukára- 171: tono radicale e assenza di allungamento.

198. Utilizzato dopo un preverbo o alla fine di un composto nominale, il derivato in -a- si attacca spesso a un tema di presente (o altro tema verbale), con valore aggettivale, in conformità con 172. Molto rare sono le formazioni “semplici” in questa serie, come iná- “padrone” che potrebbe essere fatto su un doppione *ināti del presente inóti, o ancora (denominativo) turaṇya° “che va in testa” (da cui duvanya”, stesso hy., senza un corrispondente duvanyati), tánaya- “discendente” (se la parola deriva da tanayati; si potrebbe immaginare un suffisso secondario -aya- che allarga il nome-radice tán-).

Su néṣa- jéṣá- (anche sakṣa- KS. XXIII 6 “dominatore”), vedi 192.

Queste formazioni e alcuni altri usi, in particolare quelli con preverbo (dove figurano tracce di regime Ac.), sono gli unici a mantenere un valore “verbale”. Nel complesso, l’elemento -a- è solo debolmente caratterizzato. È vero che spesso è primario solo in apparenza, essendo in realtà un allargamento da un nome-radice, un’abbreviazione di -ā radicale, un sostituto di un altro suffisso, ecc.: quindi, in ogni caso, un suffisso secondario 228.

Esiste un gruppo di derivati primari in -ā- (ossitoni) che fungono da nomi d’azione su tema di desiderativo e denominativo, jigīsā́- “desiderio di vincere”, sukratūyā́- “abilità”. Questi sono i corrispettivi esatti dei nomi d’agente in -ú-, vedi 191. A partire da AS. si trovano alcuni nomi in -ā́- su radici non alternanti, come nindā́- AS. “biasimo”; bhikṣā́- “atto di mendicare” potrebbe aver servito da intermediario, dato che la parola cessava di essere sentita come desiderativa (bhíkṣate “chiedere”, propriamente “cercare di ottenere in condivisione” da BHAJ-, formazione come dípsati 353). Così anche per dīkṣā́- AS. “consacrazione”, che suppone un (post-mantrico) dīkṣate di DĀŚ- fatto come sī́kṣanta, loc. cit.

Ci si aspetta lo stesso suffisso -ā́- su base causativa: lo si ha solo in gamayā́- 358, in un uso molto speciale.

199. Suffisso -ana-. — Un’altra categoria comune sia ai nomi d’azione (nt.) che d’agente è quella in -ana-, a grado pieno e tono radicale, es. bhójana- “nutrimento”, cétana- “visibile” e “apparizione”. L’allungamento (intermittente) secondo 189 può tradurre un valore causativo, °nā́śana- AS. “che fa perire”; upavā́sana- AS. “costume” va con vā́sas-, e svā́dana- “condimento” va con svādu- e altri. Grado ridotto raro, a tono fluttuante e semantica lontana dal verbo: vṛjána- “gruppo” (e altri significati) al nt. (a volte m.)/vṛ́jana- (hapax) “id.”; kṛpaṇá- AS. “infelice” / kṛpáṇa- “miseria”; come altrove, la presenza del grado ridotto coincide con un’indeterminatezza semantica e accentuale.

  1. Il fluttuare di tono e genere si presenta altrove: dāná- / dāna- nt. “dono”; anche, isolatamente, dāná- m. (“dono” e “donatore”), infine dā́na- m. (“[essere] dato”).
  2. Diverse formazioni, anche senza caratteristiche formali, derivano dal causativo; diverse, a partire da AS., dal denominativo, come āmán- traṇa- “luogo di deliberazione”.
  3. -ana- come suffisso secondario, sulla particella sám: sámana- “riunione; combattimento” (in realtà, sull’avverbio samanā́ “insieme”, che deriva da samá-).

Gli usi alla fine di un composto, specialmente dopo un preverbo (che non modifica la posizione del tono), sono abbastanza frequenti. Da notare il tipo “verbale” suvedaná- (ossitono!) 171.

Esiste un gruppo ristretto di nomi d’azione in -anā́- (raramente -ánā́-), come hasanā́- “risata” (śvetanā́- “offerta mattutina”?); nessun uso composito. Ma pṛ́tanā- “combattimento; esercito nemico” sviluppa il nome-radice pṛ́t-, come yósaná- (yoṣaṇā-) “figlia”, il tema yóṣan-.

Un altro gruppo ristretto di nomi soprattutto concreti, d’azione o d’agente, femminili, è in -aní- -áni, vartaní- “viaudani° “onda” (o allargamento di udán-?’). La categoria deriva in parte dagli infiniti in -ani -ane 370 372, come mostrano le estensioni -sani -táni- -váni- coincidenti con le finali infinitive. Frequenza relativa delle formazioni su tema verbale, °paptaní- “volo rapido”.

  1. Jaraṇi(prā́)- “che riempie la (forza della) vecchiaia” è per *jaraṇī come si ha vṛjanī́- AS. “astuzia” (RS. “recinto” ?).
  2. -anú- in krandanú- “ruggito” e alcuni altri nomi di valore concreto; l’origine è il tema di presente in -a-, spiegazione valida anche per diversi derivati in -ani-.

200. Suffisso -as-. — Una categoria importante è quella dei nomi in -as-, che formano nomi d’azione nt. a tono radicale e grado pieno. Il grado pieno può essere allungato secondo 189, prā́yaścitti- AS. VS. da *prāyaścit- “che sa propiziare (gli dei)”, in parziale connessione con l’allungamento del nome-radice corrispondente, vā́has- “offerta” di fronte a °vā́h- (e vāhá-); talvolta si può intervenire la tendenza 162 ad allungare la sillaba iniziale del membro finale: °vācas- “di cui la parola…”. Il tono è suffissale solo nella categoria semi-infinitiva 369.

I casi di grado ridotto sono poco probanti, se si considera che -as- può essere un allargamento di nomi-radici, come in bhiyás- “paura” (parzialmente m.), cf. le forme in bhī́s-; o dúvas- “amicizia; omaggio” (duvás- “donatore” ?) partendo da una base *dū-, var. di DĀ- secondo 22 n. 1.

Accanto al gruppo principale di nomi d’azione, esiste, con tono suffissale, un piccolo gruppo di nomi d’agente (in realtà, aggettivi): così apás- “attivo” (anche, in alcuni passaggi, “opera”) di fronte a ápas- “opera”, yaśás- “glorioso”, tavás- “forte” (senza corrispondente sostantivo). Ma, a parte questi nomi e sáhas- “vittorioso” (che conserva il tono radicale), ci sono pochi usi certi di aggettivo, e quelli che si sono supposti possono essere compresi partendo da membri finali (di bahuvrīhi) resi autonomi. In ogni caso, le finali di bahuvrīhi in -as-, autentiche o meno, sono frequenti 163.

Il valore d’azione tende a consolidarsi in usi concreti: da práyas- “soddisfazione” (da cui prā́yas° “espiazione”) si passa a “cibo confortante, libagione”; mánas- è l’insieme delle disposizioni pratiche della mente; tyájas- l’atto attraverso il quale si abbandona, ecc.; da qui, la relativa frequenza dei plurali.

201. La vitalità della formazione è grande all’inizio; molti sono gli hapax, le creazioni istantanee come śéṣas- e tánas- “discendenza” V 70 4; gli usi fissi (casi obliqui sg. o pl., in particolare I.). Diverse parole appartengono a radici perdute o oscure, come ródas- du. “cielo e terra”, generalmente allargato in ródasī-, nuovo tema del f. rifatto su dyā́- vāpṛthivī́-; pánas- si può dedurre da panasyáte come molti altri 360; un rákṣas- “protezione” (MS. IV 9 13) si è sviluppato in contrapposizione a rákṣas- “distruzione; demone” (anche rakṣás-); héṣas- “arma” presuppone hiṣ, base di HIṂS-.

  1. Su tema verbale secondario, probabilmente mṛgayás- “bestia selvatica”, tárūṣas- “che dà la vittoria”, vedi 192. Nominalizzazione di una particella, upás- “grembo” (da cui upástha-) sadhás(tha)- “dimora”. A partire dal N. pl.: váyas- “genere alato”, su vi- “uccello” e forse vipas° in vipaścit- 173 (dove è ricordata un’altra possibilità).
  2. Spostamento in -asa- in svabhyasá- AS. “che fa paura da solo” °varcasá- AS. “splendore”. La finale (rara) -así- deve basarsi sugli infinitivi in -áse 369: in ogni caso dharṇasí- “stabile” che alterna con dharṇasá- in yajus si basa su dharṇi- “portatore”.

Gruppi limitati in -tas- (rétas- “seme” srótas- “corrente”: quindi su radici con vocale finale breve); -nas- (párīṇas- “pienezza” o “completo” e poche altre parole di senso analogo; ma énas- “peccato” deriva da inóti); -vas- (várivas- “estensione” è in qualche modo in relazione con la base uruṣ- 360; pī́vas- “grasso” rifatto su pī́van-); -thas- (pā́thas- “dimora” dalle forme verbali pāthá[s] ?); -sas- (vápsas-, “forma” confrontato con vápus-). Questi derivati non fanno che confermare il ruolo di elemento allargante che è in parte quello della finale -(a)s-.

202. I nomi d’azione nt. in -is- (tono suffissale dominante) e -us- (tono radicale) sono in parte, all’origine, degli allargamenti di nomi in -i- -u-, con i quali si trovano spesso: ā́yus- “vitalità”/āyú- “dotato di vita” (nt. ā́yu- 244). Per tárus- “forza” si deve evocare la presenza del tema verbale taru- 320; per táviṣ-ī- “vigore” (cf. anche túviṣmant-) e támis-- “tenebre”, la presenza di un secondo suffisso che indebolisce il primo, cf. 217 n. 2. Kravís- “carne cruda” (senza radicale verbale) è evidentemente alternante con krūrá- AS., e ā́mis- “id.” è rifatto sul precedente secondo āmá- “crudo”. Infine maṃhis- “favore” (in stobha) è tratto da máṃhiṣṭha-.

  1. C’è un piccolo gruppo di aggettivi in -us-, a tono variabile, anch’essi secondari: dakṣús- (I) “che brucia” è una variante di dákṣu-; vanús- “zelante; nemico” si basa sul tema verbale vanu-; su vidús-, vedi 244.
  2. -is- come suffisso secondario in sádhis- “sedile”, cf. sadhástha- 201.

203. Suffissi -i- e -u-. — Sono il tipo stesso di formazioni poco caratterizzate; il tono, il grado variano come l’uso. Gli aggettivi dominano, a valore “verbale” attenuato, krīdí- “che gioca”, jāyú- (allungamento raro, secondo 189) “vincitore”. In una misura mal determinabile, -i- è il secondo elemento di radici “dissillabiche” (kaví- “ispirato”, °máthi- “che deruba”) o un residuo di -is- (°śocí- “di cui lo splendore…”); così come -u- può essere un residuo di -us- (facilitato da una flessione pre-prākritica?) (cákṣu- 244); entrambi i suffissi infine possono risultare dall’abbreviazione di un -ī- -ū- finale (es. grā́hi- “quella che afferra”, per *grāhī-), specialmente nei nomi-radici 195: la coincidenza i/ī, u/ū è in gran parte una questione di flessione.

Ma -i- -u- possiedono anche usi tipici di carattere “verbale”: -u- specialmente come “participio” di temi verbali “derivati” 191 (da cui, una volta acquisito slancio, si costituiscono forme indipendenti come draviṇasyú- “che desidera ricchezze” e in particolare alcune finali in -āyú- che non hanno mai avuto un denominativo personale per autenticarli); -i- e -u- su temi di presente, aoristo, perfetto: vyanaśí- “che penetra” (regime Ac.), jághni- “che uccide” (id.), dákṣu- “che brucia” e un certo numero di altri.

Infine esiste un gruppo di nomi d’azione m. in -i- tratti da radici in -ā-, specialmente “dhí- e “sthí- dopo tema nominale o preverbo; sarebbe inopportuno vedere in questo -i- l’elemento radicale derivato dall’alternanza ā/i. Parallelamente c’è un gruppo più ristretto di forme in -u- tratte dalle stesse radici 22 n. 1.

  1. Di fronte a duvasyú- “che onora” si è costruito duvoyú-, stesso significato, quindi con trattamento di saṃdhi 137: influenza dei composti in °yu-, tipo aṃhoyú- cf. yuyótanā no ámhasaḥ ‘VIII 18 10.
  2. Infisso -ā́k- davanti a -u- in mṛḍayā́ku- “compassionevole”, di fronte a mṛḍayati da cui ci si aspetterebbe *mṛḍayu-.

204. Suffisso -ti-. — Un’altra vasta categoria di nomi d’azione è quella in -ti-, femminili, con radicale ridotto. L’aspetto del radicale è del tutto simile a quello dei verbi in -ta-. Tuttavia, il tono qui esita tra radicale e suffisso (se c’è un preverbo, è quasi sempre sul preverbo). L’uso preponderante è alla fine di un composto nominale o dopo un preverbo; tuttavia, diversi usi semplici si sono solidamente affermati, come matí- “pensiero” (a volte °māti- dopo preverbo) di fronte a °huti- “oblazione”, °bhūti- (bhūtí- semplice è eccezionale) “origine”, °yukti-, ecc., incluso °sti- (da AS- 1) nel senso di “appartenenze” (m.! Due esempi in semplice e cf. 148).

Accanto a questo vasto uso di nomi d’azione, c’è un piccolo numero di nomi d’agente (semplici o dopo preverbo), che possono basarsi su valori d’azione concretizzati: kṣití- “residenza” da cui “popolo”, dhū́ti- “scuotimento” da cui “chi scuote”. In diversi casi in cui si pensava di vedere valori d’agente, si tratta, secondo le tendenze vediche, di nomi d’azione liberamente apposti a nomi animati, ūtí- non “chi aiuta” ma “aiuto (personificato)”, abhímāti- “ostilità”, non “ostile”.

  1. L’uso aggettivale è da scartare per havyádāti- “chi distribuisce l’offerta” dove il tono si riferisce a un bahuvrīhi.
  2. Divergenza tonica giustificabile tra abhíṣṭi- (da AS-1) “presenza, aiuto” e abhiṣṭí- “presente, che aiuta, che prevale”; altrove è ingiustificata, bhūtí- RS./ bhuti- AS. YV.; śaktí-/ śákti- “energia”; vṛṣṭí- 86.
  3. Grado pieno in alcuni nomi concreti come hetí- “attacco; arma da lancio” tantí- “filo” ránti- “riposo”.
  4. -i- di collegamento in sánitau (L.) “guadagno”, snī́hiti-/ snéhiti- “tumulto, massacro”, cf. sneháy-.
  5. Diverse anomalie nelle forme jígarti- “che ingoia” (tono!) caṛkrtí- “lode” jánayati- VS. “atto di generare” (3a sg. nominalizzata?), pṛtsutí- “fila (di combattenti)” da pṛtsú + -ti- collettivo, *gopayati- alla base di gopayátya- 365. Su vīti°, vedi 184.

205. La formazione, associata ai verbi in -ta-, fornisce nomi che designano l’atto puro (senza considerazione del risultato), l’atto “oggettivo”, dinamico, la disposizione a governare oggetti. Da qui la frequenza dei regimi nominali (tipo sómasya pītí- / sómapīti- “atto di bere il soma”) e la specializzazione in usi dativi semi-infinitivi 370. Reggenza accusativa 404.

Una variante rara è -atí-/-áti- (facilitata da un tema di presente in -a-), vasatí- “dimora”. In vṛkáti- “con andature di lupo”, -áti- è un suffisso secondario, come il -ti- collettivo della derivazione numerale 293 296 e forse aratí- (m.!) se la parola significa davvero “insieme dei raggi della ruota”.

Così come il nome verbale in -na- coesiste con -ta-, -ni- figura in condizioni analoghe a -na- 364: jūrṇí- “splendore ardente” trāṇi- Kap. IV 1 “protezione” (o suffisso -ani-?’). Ma c’è un altro -ni- a valori diversi in ghṛ́ṇi- (m.!) “calore del sole” váhni- “che conduce all’offerta” yóni- (grado pieno, genere m.; f. nei mantra tardi) “cammino” da cui “soggiorno; matrice”.

206. Suffisso -tu-. — Il suffisso -tu-, con tono variabile (più spesso sul radicale) e grado di solito pieno, produce nomi maschili che denotano l’azione vista come capacità, abilità: krátu- (da KṚ- con una finale -atu- che si trova in vahatú- “matrimonio” e alcuni altri, qui derivata dall’aoristo akran akrata) “abilità (nella guerra; nella vita religiosa)”; da qui la creazione di infiniti 370 sqq.

L’uso è spesso al confine tra nome d’azione e nome concreto: mántu- “capacità di conoscere (attraverso il pensiero)” e “chi conosce”, jantú- inizialmente “generazione”, poi “essere vivente”;

ṛtú- “stagione” ha designato inizialmente una ripartizione in un continuum (il ṛtá-). Diversi usi sono inoltre “ripartitivi”, °kṛ́tu- 391 (cf. kṛ́tvya- “efficace”) °vártu- °dātu- °dhā́tu- alla fine di composti numerici.

  1. Il genere nt. (che probabilmente prevaleva in origine) è sopravvissuto in dā́tu- “parte” dhā́tu- “fondamento” vā́stu- (grado lungo!) “abitazione”; il femminile in jīvā́tu- 369.
  2. Su tema verbale (con, come previsto, valore aggettivale) tapyatú- “che brucia” siṣāsátu- “che desidera vincere”.
  3. Su tipi come suhántu- (che solo ammette finali in -ītu- come durdhárītu- “difficile da tenere”, per derisione turphárītu-), vedi 171.

Così come si ha -ni- accanto a -ti-, si ha -nu- in bhānú- m. “luce” e tapnú- MS. IV 12 2 “bruciante”. Da qui -t-- in kṛtnú- “attivo” jigatnú- “che si muove”; da lì -atnu- (ārujatnú- “che rompe”; ibrido jighatnú- “che colpisce”); -itnú- su base in -ay- (tanayitnú- “che tuona” ādayitnú- Kh. 64 senso?). Dhṛṣṇú- “audace” è evidentemente collegato a dhṛṣṇoti. In tutti questi nomi in -tu- -nu- gli usi alla fine di un composto nominale sono rari.

207. Suffisso -man-. — Il suffisso -man- forma nomi d’azione nt. a tono radicale e grado pieno, tipo dhárman- “legge”; così come un gruppo più ristretto di nomi d’agente a tono suffissale, dharmán- “che tiene”. Il primo gruppo è piuttosto coerente, fornendo valori stabili, risultato di un’attività o più spesso di una situazione (verbi di stato): márman- “punto mortale” designa un luogo, come diverse altre forme; takmán- “febbre” AS. (e diversi altri n. di malattia) è propriamente “ciò che provoca un accesso”. Dopo un preverbo (uso raro) si hanno, come sempre, accezioni più vicine al verbo: vídharman- (tono preverbale!) è un semi-infinito 372. -i- di collegamento (e più spesso -ī-) in jániman- / jánman- 40 e altri.

Accanto a questa serie si è sviluppato un gruppo di msc. a tono suffissale: bhūmán- “abbondanza” (bhū́man- nt. “terra” è probabilmente un derivato secondario), omán- “freddo” e “protezione” (di fronte a un *óman- conservato in ómanvant.-), jarimán- “vecchiaia”. Questa classe si è associata precocemente ai comparativi in -īyas-, così il m. varimán- “estensione” serve da astratto a urú- e corrisponde a várīyas- “più vasto”; varṣmán- “altezza” (varṣimán- VS.) è inseparabile da várṣīyas-. Si è arrivati così a una derivazione secondaria: mahimán- “grandezza” e soprattutto harimán- “itterizia” (I) (fatto sull’immagine dei n. di malattia primari in -man-).

Aryamán- “stato di arya” (tracce di nt.) è evoluto in nome d’agente. Fluttuazione tonica in jéman- “vittoria” RS./ jemán- VS. TS.; várṣman- accanto a varṣmán- citato. — Allargamento in -mat(a)- 250 n. 4.

208. -ma- è in parte (nonostante il genere maschile) una tematizzazione di -man- nt.: così dhárma- si è sostituito a dhárman- da AS. (3 volte) YV.; il movimento è stato probabilmente favorito dall’accessione di -ma- alla fine di bahuvrīhi 163. Comunque esiste un gruppo indipendente in -ma-, con valori concreti: sóma- n. del liquido sacrificale, stóma- “(inno di) lode”; aggettivi a tono suffissale, rukmá “brillante” da cui “ornamento”, bhīmá- “temibile”; su tema raddoppiato, tūtumá- (X) “potente”.

Debolmente caratterizzato è -mi-, jāmí- “parente di nascita”; probabilmente n. d’azione (tuvi)kūrmî- 54; suffisso secondario bhū́mi- “terra” (e -- secondo pṛthivī́-).

La finale -yu- forma da un lato i maschili manyú- “pensiero (generalmente, malevolo)”, che deve essere correlato al presente mányate, e mṛtyú- “morte” (radice allargata in -t-); dall’altro, l’aggettivo yájyu- “zelante nel sacrificio” e alcuni altri. Stesso uso doppio in diversi suffissi a -n-: -na- d’azione in yajñá- “sacrificio” o (f.) tṛ́ṣṇā- “sete”, aggettivo in śvítna- “bianco” °śrúṇa- 171. Le basi sono in parte oscure, ma la formazione evidentemente non ha nulla a che fare con i verbi 364.

  1. Allargamento di -na- in -náj-: tṛṣnáj- “assetato” (in derivazione secondaria, sanáj- “vecchio”). L’elemento -j- su base non nasale esiste solo in dhṛṣáj- “audace” dove la nasale figura nel verbo affine (dhṛṣṇoti) e in bhiṣáj- “guaritore” (base?) dove la nasale appare in abhiṣṇak 361.
  2. Gruppi minori in -ina- (vṛjiná- “astuto”) e più spesso -una- (vayúna- “avvolgimento” váruṇa- “protezione” X 89 9 “protettore” I 186 3 mithuná- “formante coppia”, ecc.); la base in -u- è evidente, cf. várutrī-, ecc. e l’avverbio mithu. -Āna- 309 fin.

209. Altri suffissi d’azione. — Pochi suffissi sono limitati all’uso d’azione. Tale è il caso di -tha-, che fornisce nomi maschili (alcuni nt., alcuni f. in -thā-) a grado generalmente ridotto e tono generalmente suffissale: tīrthá- nt. “guado” pṛṣṭhá- X 89 3 “questione”; grado pieno in ártha- “scopo” (nt. inizialmente, poi m.) gā́thá- “strofa cantata” (anche gāthá- raro; gītha- in udgīthá- AS. YV.). Il valore di strumento, di oggetto concreto, è abbastanza evidente, e inoltre ci sono alcuni usi notevoli alla fine di composti nominali, come putrakṛthá- “procreazione”.

-tha- come suffisso secondario in upástha- e sadhástha- 201 bhayástha- “paura”, quindi dopo finale -as-.

La formazione include, come diverse altre, un doppione in -átha- derivante dalle basi tematiche; grado fluttuante. Così śapátha- “maledizione” prothátha- “nitrito” (atti di tipo concreto) ayátha- “piede”; carátha- ha un valore incerto, in parte semi-infinito 370 n. Su vidátha-, vedi 50.

Várūtha- nt. “protezione” come váruṇa- sopra e analoghi. Una variante in -áthu- è conosciuta da AS., per designare disturbi del corpo, vepáthu- AS. “tremore”. -thi- in methí- AS. “pilastro”.

Un altro suffisso è limitato all’uso “actionis”, ovvero -(t)yā̆-, ma si trova raramente alla fine di composti nominali 171. Tuttavia si ha tṛṣyā́(vant)- “che ha sete” (anche tarṣyā́vant-), facilitato dal participio tṛ́ṣyant-, e vidyā́- “sapere”, da AS. YV. (la RS. ha ancora solo jātavidyā́- “scienza degli esseri” corrispondente a un *jātavid-).

210. Altri suffissi d’agente. — Uno dei soli suffissi primari nettamente limitato alla funzione “agente” è il suffisso -tṛ- a radicale pieno, che si presenta in due forme: a) con tono suffissale, per formare nomi che si riferiscono alla funzione, indicando che l’individuo è naturalmente predisposto a fare una certa cosa; b) con tono radicale, per formare semi-participi (eventualmente con regime Ac.), designando l’individuo come colui che compie un atto. Ad esempio dātā́ rā́dhasām (passim) “è un donatore di favori” = “è in grado di darli”, rispetto a dā́tā rā́dhāṃsi śumbhati I 22 8 “brilla, (mentre) dona i suoi favori” [ma TS. sameddhā́ te “accendendoti”]. I nomi di professione hanno il tono suffissale, come nelle liste del Puruṣamedha, — tranne in genere i nomi degli officianti (che non sono funzioni stabili). Se c’è un preverbo, il tono suffissale (caso frequente) si mantiene, il tono radicale (caso raro) passa al preverbo. Lo sviluppo in aggettivo è raro, come dimostra già la quasi inesistenza di un neutro. Infine, l’uso come membro finale (di tatpuruṣa, con il membro anteriore essendo un nome) è escluso 172; rispetto a vṛtrahán- “che uccide Vṛtra”, non si può dire che vṛtrásya (vṛtrā́ṇāṃ) hantṛ́- (in bahuvrīhi, si trova solo °hotṛ-).

  1. L’i di collegamento (ī raro) appare in parte delle forme; eventualmente u (ū) o anche o 192.
  2. Estratti da basi coniugazionali codayitṛ- “che stimola” jarāyitṛ- JB. 1141 “che invecchia” e alcuni altri; vāvā́tṛ- 253.
  3. Il suffisso -(i)tra- è in principio e in parte uno sviluppo di -tṛ-: nomi nt. a tono di solito radicale, indicanti soprattutto lo strumento: śrótra- “orecchio” gā́tra- “membro” stotrá- (tono!) “(formula di) lode”; la finalità (al D.) yantrá- e dhartrá- (tono!) “fatto di tenere, di portare” TS. I 6 I c; alcuni m. e f. (questi in -trā́- come nāṣṭrā́- AS. VS. — grado lungo — “distruzione”). La provenienza è evidente in hotrá- 228. Su jaitra-, vedi 189. Dopo un preverbo (caso raro), víbhṛtra- ha valore di aggettivo di obbligo “adatto a essere distribuito”, valore che si ritrova in johū́tra- (su intensivo) “da invocare” yájatra- (finale -atra-) “da adorare”. Su basi diversamente allargate, dátra- (21), in realtà prob. *dattra- (su datté) tárutra- “vincitore” (allargamento di tarutṛ́-) kṛntátra- “taglio (di terreno)” sul tema verbale kṛnta-.
  4. -tri- in arcátri- “che risuona”.

211. Piccole serie. — Piccoli gruppi con prevalenza di valori aggettivali si formano con timbri vocalici vari attorno a un supporto r o v (come si è visto sopra con le serie -ma-/-mi-, -na-/ni/-nu-). I più produttivi sono in -ra-, quasi sempre con grado ridotto e tono suffissale, tipo ugrá- “violento” riprá- (nt.) “macchia” dṛdhrá- 56 ā́skra- 20; sthūrá- “forte, grosso” è fatto su una base *sthū̆- apparentemente derivata da STHĀ- secondo 22 n. 1. Tono radicale in alcune rare forme, come dhī́ra- “saggio”. -ira- in sthávira- (in realtà, ricostruito a partire da sthūrá-) e śithirá- “rilassato” (dove tuttavia la r può essere spiegata in funzione della r finale del denominativo śrathary-). Gli usi dopo preverbo sono rari, il che corrisponde all’allontanamento dai valori propriamente verbali. Le accezioni concrete (forza, movimento, splendore) dominano. Molte forme scompaiono dopo la RS.

-ura- in vithurá- “che vacilla” (ma forse derivato da un *vithur-, cf. il denominativo vithuryáti); -ara- in gambhára- “luogo profondo” (X) accanto a ga(m)bhīrá- “profondo”. -ri- in bhū́ri- “abbondante” e alcuni altri (-uri- in dā́śuri- “adoratore”, ma cf. dāśu°; táturi- incerto 191); -ru- in bhīrú- “timido” e con vari allargamenti presuffixali, patáru- “che vola” vandā́ru- “lodatore” e (nt.) “lode” maderú- (sanéru-.) prob. “che inebria” sul tema maday- (*sanay- ?), da cui forse, come derivato secondario, mitréru- (o composto ?).

Parallelamente a -r- si trova molto più raramente -l-. Le sole forme della RS. sono tṛpála- (IX e X) “che conforta” tṛdilá- (X) “poroso”. Nell’AS. appare una finale -ālú- su tema “causativo”: patayālú- “che vola” (valori participiali), dove -āl- dà l’impressione di un infisso.

212. I suffissi a -v- hanno un tono variabile, soprattutto suffissale, con un grado radicale poco discernibile: pakvá- “maturo”, śakva- (in stobha). Da notare con ī “di collegamento”, ámīvā- “malattia” (presente amīṣi) (su dhruvá-, vedi 38). -va- è in parte la degradazione di -van- 224: cf. vibhā́va- (I) “che splende” accanto a vibhā́van-.

  1. Combinazioni di suffissi danno -vana- (śuśukvaná- “che splende fortemente”, var. di °vaní); probabile -vanu- in vagvanú- 124. D’altra parte -vara- in itvará- (X) “che si muove” kárvara- “azione”, uniche forme chiare della RS. (con vidvalá- “che sa fare”); ma -vara- è associato a -van- (cf. °itvan-), che alterna con il femminile -varī- 235, da cui potrebbe risultare -vara-,
  2. -vi- in alcuni aggettivi a tono radicale o tono sulla sillaba raddoppiata: jā́gṛvi- “sveglio”; ghṛ́ṣvi- “rapido” sembra allargare ghṛ́ṣu-.

Il supporto in -s- dà un suffisso -sa- (da cui -iṣa- -īṣa-\ spesso oscuro): gṛ́tsa- “veloce; abile” vikṣá- MS. IV 12 2 “agitato”; púrīṣa- nt. “stoppa”.

  1. Gruppi complessi: -sara- (matsará- “che inebria” cf. aoristo mátsat); -sna- (deṣṇá- 192); -snú- (-iṣṇu-) in jiṣṇú- “vincitore” e da lì, su base causativa (in valore participiale e eventualmente regime Ac. 404) pārayiṣṇú- “che fa attraversare” e, dopo preverbo, abhiśocayiṣṇú- “che tormenta”; -asnu- in vadhasno (V.) “armato dell’arma di morte” (cf. vádhar).
  2. Un suffisso -pa- non è direttamente isolabile da nessuna parte, anche se probabilmente primario in alcune forme.
  3. Le finali in -an- sono frequenti (-man- -van- esclusi), ma raramente su temi analizzabili; sono in parte allargamenti di nomi-radici, come vibhvan-/vibhván- n. proprio, da vibhū́- “potente” (e probabilmente anche le poche finali in °bhvan- °śvan-). Altrove, tákṣan- “falegname” pratidī́van- “partner nel gioco” indhan° “fiamma”.

213. Comparativi. — Gli aggettivi verbali saranno esaminati in 362 sqq., rimane la formazione, nettamente caratterizzata, dei derivati primari in -īyas- (a volte -yas-, dopo una vocale lunga, o come doppione di -īyas- dopo una sillaba breve: ad esempio in távyas-/ távīyas- “più forte”, fatto in base agli scambi di suffisso secondario -ya-iya- 229). Sono dei “comparativi”, ai quali si associano esattamente i “superlativi” in -(i)ṣṭha- 245. Queste forme hanno il grado pieno e il tono radicale (tono sul preverbo se ce n’è uno). Indicano in origine che il senso della radice verbale o piuttosto quello del nome-radice teoricamente corrispondente è inteso a un grado eminente: yájīyas- (e yájiṣṭha-) “che sacrifica meglio” di fronte a *yaj- “che sacrifica”; dopo preverbo (caso raro), práticyavīyas- “che si stringe meglio contro”; il valore “verbale” si misura occasionalmente alla presenza di un regime Ac. 404; su préṣṭha- (préyas-), vedi 29; su jyeṣṭhá- (tono!), 86.

In realtà, la maggior parte di queste formazioni si sono associate con aggettivi (attestati o implicati) che fungono da “positivi” e inclinano queste forme verso un valore propriamente comparativo. Ad esempio śréyas- “più bello, migliore” serve da comparativo a śrī́- “eccellenza” o piuttosto a post-véd. śrīmant-; bhū́yas- “più abbondante” (bhū́yiṣṭha- con -y- “tampone”) “più abbondante”, a bhū́ri. Il suffisso è indubbiamente secondario in sányas- “(più) antico” (cf. sána-‘’) vásyas- nt. “benessere” pā́pīyas- TS. “peggiore”, mentre si accredita la sintassi ablativa. Una alternanza suppletiva gioca in yuván-/ kánīyas- “più giovane”. In návyas- (anche návīyas-) “(più) giovane”, l’elemento finale allarga solo la base návya- “nuovo”, doppione di náva-.

Su tema d’aoristo, párṣiṣṭha- “che attraversa meglio”. Su base avverbiale non isolata, śáśīyas- “più numeroso”: śáś(vant)-.






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