aṃhas

Il concetto vedico di aṃhas di Jan Gonda

JAN GONDA, Il Concetto vedico di aṃhas (1956)
da J. Gonda, Selected Studies, Vol II, Leiden E. J. Brill, 1975, pp. 58-85 [33-60]

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Nel tentativo di scoprire l’esatto significato dei termini che compongono l’antico vocabolario indiano della vita sociale, della religione e della “Weltanschauung”, incontriamo alcune serie difficoltà metodologiche. Come possiamo sapere con esattezza quali idee erano collegate dagli stessi poeti del Ṛgveda a un gran numero di parole che riguardano la loro vita spirituale, sociale e intellettuale? Inoltre, poiché il significato delle parole è soggetto a fluttuazioni, come possiamo sapere se lo stesso senso è stato attribuito a quei termini dalle generazioni successive? Sebbene al giorno d’oggi nessuno si schiera al fianco degli antichi commentatori indiani nella buona e nella cattiva sorte, chi è in grado di dire esattamente fino a che punto può seguirli? Non di rado è stato trascurato il fatto che il metodo etimologico è in grado di sopravvalutare il valore di parole affini che spesso erano in uso tra uomini con credenze diverse, tradizioni diverse e un diverso atteggiamento mentale, e di introdurre elementi estranei nell’antico pensiero indiano. È deplorevole che, nel discutere i significati delle parole vediche, le etimologie - che, per quanto evidenti, sono sempre di carattere ipotetico - siano state spesso messe sullo stesso piano dei fatti consolidati 1. Anche in quei casi - fortunatamente abbastanza frequenti - in cui è possibile un solo collegamento etimologico e tutti i fattori corrispondono perfettamente tra loro, rimane qualche incertezza sul piano semantico, per non parlare delle possibilità di sviluppi paralleli. Inoltre, abbiamo ragione nell’assumere tacitamente che i significati delle parole in discussione abbiano sempre ammesso definizioni esatte?; erano completamente chiari per coloro che li usavano?; il vocabolario tradizionale della religione e della vita spirituale non lasciava spazio ad alcuna ambiguità?2 In breve, le difficoltà di giungere a una corretta comprensione delle intenzioni di quegli antichi poeti, dei loro stati d’animo e dei loro pensieri, sono così evidenti che non possono non suscitare diffidenza verso ogni tentativo troppo assertivo di sollevare un angolo del velo.

Il destino del filologo è che, pur sapendo dell’inadeguatezza dei suoi strumenti e dei suoi metodi, non possa fare a meno di porsi delle domande e di cercare delle risposte, cioè di cercare quella visione di un particolare fenomeno che per il momento si inserisce nel quadro dell’antica cultura indiana che si è fatto studiando i testi e considerando e riconsiderando quello che è il risultato di quegli studi scientifici e di civiltà antica che per il momento sembrano essere in accordo con i migliori standard. In continuità con quanto osservato in un’altra pubblicazione3 sui frequenti riferimenti alla “vastità” nella letteratura vedica e sull’evidente importanza delle idee connesse a termini come uru- “vasto, largo, esteso, ampio, grande” ecc. da parte dei poeti e degli esperti a cui dobbiamo gli antichi documenti, e in aggiunta ad alcune note di Rodhe4 e mie5, si può qui rivendicare l’attenzione per l’idea opposta che, a quanto pare, era espressa da alcune parole derivanti dalla radice aṃh-. Questa famiglia fa parte di quei gruppi di parole che, svolgendo un ruolo più o meno importante in epoca vedica, sono state sostituite da altre espressioni in un periodo successivo6. Non ci sono dubbi sul suo senso generale: in generale significava qualcosa come “male” e nei commentari veniva spiegato di conseguenza con pāpa- e parole simili.

Relativamente chiaro è, per cominciare, il significato del sostantivo aṃhu-: “Drangsal”, tribolazione (Grassmann); o “Enge (stretto), Drangsal” (Roth nel Petr. Dict.). È sempre opposto a uru- o al correlato varivovittara-: varivas- “spazio, libertà, sollievo, comodità”: Kāṭh. 25, 9: 116, 21 dove varīyasī “più ampio” e aṃhīyasī “più stretto” (in senso letterale) sono opposti; in ṚV. 1, 107, 1 ci si aspetta che la buona disposizione (sumati-) dell’Āditya trovi o conceda varivas-, sollievo dall’aṃhu-. La particella cit che ricorre in 2, 26, 47 sembra indicare il carattere grave dell’idea di angoscia espressa da aṃhu-: “anche da aṃhu- Brahmaṇaspati, il meraviglioso, è in grado di concedere sollievo”: letteralmente, “di concedere ampio spazio, stanza, libertà dall’oppressione etc., liberazione”. Non è necessaria l’interpretazione del testo fornita da Sāyaṇa di “concedere ampia assistenza per aiutarci a uscire dalla povertà”. La stessa limitazione alle condizioni economiche è stata assunta da questo commentatore anche in 1, 107, 18 (cfr. 5, 67, 4).

In 5, 65, 4 mitró aṃhóś cid ād urú kṣáyāya gātuṃ vanateMitra gewinnt selbst aus Bedrängnis einen Ausweg, freie Bahn zu einem Wohnsitz”9. In considerazione di altri passi - 1, 36, 8 dove si dice che dopo la vittoria su Vṛtra e la conquista delle acque fu preparato un ampio tratto di terra per abitarvi (urú kṣáyāya cakrire); 8, 68, 12 dove si invoca Indra affinché renda disponibile un’ampia regione per coloro che pregano e per i loro figli, un’ampia regione per abitare (urú kṣáyāya nas kṛdhi) e per procurare ampiezza per vivere; 10, 99, 8 dove Indra, dando l’acqua, è descritto come se trovasse un luogo o uno spazio libero per, o l’accesso a, una dimora (kṣáyāya gātúṃ vidán no asmé) - questi termini un po’ ambigui possono essere presi come riferimento alle difficoltà della vita nomade: gli arii ṛgvedici, che costituivano principalmente comunità pastorali e coltivavano tratti di terra fertile in modo molto antieconomico e che, inoltre, venivano spesso allontanati dai loro campi e pascoli da coloro che venivano dopo di loro, desideravano ardentemente l’opportunità di stabilirsi in una regione ampia e fertile, dove sarebbero stati liberi dalla ristrettezza e dall’oppressione in vari sensi10. ṚV. 5, 67,4 Mitra e Varuna si dice che diano buona guida e buoni doni, concedendo sollievo anche dall’aṃhu- (aṃhóś cid urucákrayaḥ). In 8, 18, 5 i figli di Aditi sono descritti come capaci di allontanare le ostilità e - sempre con la stessa espressione - di concedere ampiezza al posto di aṃhu-, nella strofa successiva la dea stessa è invocata per proteggere il bestiame di chi parla e per proteggerli dagli amha, “sempre in aumento”. Qui aṃhu- significa, secondo Sāyaṇa, āhananaśīla- pāpa- cioè “il male intrinseco al picchiare o uccidere”, che almeno era senza dubbio uno degli aspetti di aṃhu-. Gli stessi dèi, in una preghiera di liberazione dal pericolo e dall’angoscia11, non solo vengono implorati per la protezione e la liberazione dai legami, ma si afferma anche che dispongono del “sollievo dalla ristrettezza”, sollievo che è, ancora una volta, espresso dall’“ampiezza” (ásti devā aṃhór urú): 8, 67, 7. Qui Sāyaṇa, fraintendendo uru, prende aṃhos come termine per “un assassino (distruttore) di cattivo carattere”. Nell’Aitareya-brāhmaṇa il “comparativo” della parola aṃhu- ricorre come aggettivo, sempre in opposizione a uru- “ampio”: 1, 25, 6 paro varīyāṃso vā ime lokā arvāg aṃhīyāṃsaḥ “questi mondi sono più ampi sopra e più stretti sotto”. Nel composto aṃhubheda- di senso osceno (“con una stretta fessura”: Vāj. S. 23, 28), che ricorre in uno dei mantra usati per accompagnare il rito della regina e del cavallo nell’Aśvamedha, il significato letterale di “stretta” è fuori discussione.

L’aggettivo aṃhurá-12 ricorre in ṚV. 10, 5, 613 ~ Ath. V. 5, 1, 6, una strofa di significato incerto: “i veggenti hanno tracciato sette confini, a uno di questi è andato un aṃhura-“. Si tratta di sette entità, come ipotizzato da Geldner14, “die letzten und höchsten Ideen oder Symbole des Urwesens, bei denen die Spekulation Halt machen musz”15; è forse aṃhura- “l’uomo che non trova una via d’uscita”? In ogni caso, questa interpretazione - che collega ancora una volta la parola alla ristrettezza spaziale o alla mancanza di spazio - sembra più plausibile della spiegazione etica suggerita da Yāska, Nir. 6, 27 e adottata da Durga e Sāyaṇa: aṃhuraḥ = aṃhasvān = pāpavān puruṣaḥ “un, peccatore” (cioè un ladro, l’assassino di un brahman o di un embrione ecc.).

Un passo molto interessante è ṚV. 6, 47, 20 “O dèi, abbiamo raggiunto un tratto di terra senza un buon pascolo per il nostro bestiame; la terra, sebbene (altrimenti, di solito) ampia, è diventata stretta” (agavyūtí kṣétram āganma devā urvī sati bhūmir aṃhūraṇābhūt). Questa affermazione, che naturalmente può essere presa in senso metaforico - riferendosi a un uomo che ha perso le sue mucche o i suoi mezzi di sostentamento: cfr. le parole seguenti: “Bṛhaspati e Indra, mostrate la strada al saggio che ansioso (di ritrovare le sue mucche) si trova in una situazione così (malvagia)” - fu fatta da Sāyaṇa per riferirsi a Garga che si era perso nella foresta. La stessa parola amhūraṇa- ricorre, come sostantivo, in 1, 105,17 in un contesto significativo: Trita, che è stato sepolto in un pozzo, prega gli dèi per ottenere aiuto; Bṛhaspati - un dio che protegge l’uomo onesto dai pericoli e dalle calamità - lo ascolta e ne provoca la fuga, o letteralmente “lo fa uscire dalla stretta”: kṛṇvann aṃhūraṇād uru (a. aṃhasaḥ pāparūpād asmāt kūpapātād unnīya uru vistīrṇaṃ śobhanaṃ k. kurvan Sāyaṇa). L’uomo che, sia per quanto riguarda la sua persona, sia per quanto riguarda la sua casa, “scende a unṃhūrana-“ è “afferrato da unṃhaḥ” (Kāṭh. 10, 9).

Lo stesso dio Bṛhaspati o Brahmaṇaspati16 viene anche chiamato in causa in relazione al termine aṃhas, di cui passiamo ora a parlare. Occupando una posizione di rilievo nel pantheon ṛgvedico, è un sacerdote e una divinità benevola. È associato ad Agni e a Indra e svolge anche un ruolo nel mito di Indra della liberazione delle mucche. È descritto come un costruttore di sentieri (ṚV. 2, 23, 6), che scaccia i nemici e i “lupi” (st. 7).

“Con una buona guida Tu guidi e proteggi l’uomo che si offre a Te, (in modo che) nessuna angoscia (aṃhas) lo raggiunga”17.

Sebbene Sāyaṇa sia di nuovo incline a considerare l’aṃhas come un termine per “povertà” (pāpaṃ pāparūpaṃ dāridryaṃ vā), si può porre una certa enfasi sull’associazione dell’aṃhas con le parole che indicano protezione e guida o conduzione (st. 4). “Non lo sottomettono (“superano”: titiruḥ) né gli aṃhas né i duritam (“cattivo corso, difficoltà, disagio”) da qualsiasi parte, né l’invidia né gli uomini disonesti; Tu allontani tutti i poteri maliziosi da quell’uomo che, o Brahmanaspati, proteggi come un buon mandriano” (st. 5)18. Qui Sāyaṇa identifica aṃhas con āhantavyaṃ duḥkham e duritam con tatkāraṇaṃ pāpam, essendo la prima esplicazione “disturbo da colpire o battere” ispirata da un’associazione “etimologica”19. Un altro luogo interessante è già stato menzionato: 2, 26, 420 Brahmaṇaspati porta avanti (conduce, promuove ecc.) l’uomo che si offre a lui (prá tám prācā nayati), lo difende dall’angoscia (letteralmente o, piuttosto, originariamente: “lo rende ampio dalla ristrettezza”), lo salva dalle ferite…”21.

Un’altra divinità a cui viene attribuita la capacità di proteggere dal male chiamato aṃhas è Pūṣan22, conoscitore dei sentieri e custode delle strade per eccellenza: è in grado di guidare il cercatore per recuperare ciò che si è smarrito, conosce le regioni, protegge il bestiame e i beni, li riporta indietro quando sono perduti. Gli si chiede di allontanare dalla strada i pericoli, il lupo, il viandante (cfr. 1, 42, 1 ss.), di proteggere il mandriano e la sua mandria dai molti pericoli che la insidiano, di rendere le strade facili e percorribili, di condurre il cammino verso un pascolo ricco di erba. A questo proposito è chiamato “liberatore” (vimocana-) e “discendente della liberazione” (vimuco napāt) che sembra significare “il rappresentante del potere che effettua un sano e sicuro ritorno a casa” (1, 42, 1). L’interpretazione proposta da Sāyaṇa dell’inizio di questo passo (“O Pūṣan, passa attraverso le vie, rimuovi gli aṃhas” . . . : sám Pūṣann ádhvanas tira vy áṃhaḥ . . . ) vale a dire “O Pūṣan, fa’ che raggiungiamo la meta desiderata e distruggi il male che è causa di impedimenti (ostacoli ecc.)” (vighnahetuṃ pāpmānam) può essere considerata plausibile.

Ora che la nostra attenzione è stata attirata dalla relazione tra aṃhas e difficoltà sulla strada, possiamo discutere anche passaggi come 2, 34, 15 in cui si chiede ai Marut di estendere un favore simile a coloro che pregano e il verbo usato (pārayathāty aṃhaḥ) significa letteralmente “portare attraverso”. Lo stesso significato è ancora più evidente in 7, 66, 5: “possano essere davanti (a noi) nella nostra marcia coloro che ci portano attraverso gli aṃhas” (prá nú yā́man … yé no áṃho ‘tipíprati): non sembra esserci bisogno di spiegare metaforicamente questo luogo: nei versi precedenti il dio Varuṇa è implorato di proteggere colui che elogia e i suoi parenti e di ascoltare le loro preghiere; “questa dimora deve”, si aggiunge, “essere molto attenta o disponibile”; e in st. 8 si afferma esplicitamente che il poema porta alla ricchezza e al potere salvaguardando dai “lupi”, un termine che senza dubbio includeva altri esseri viventi di natura sinistra e malevola, come ladri, viandanti, ecc.23 Lo stesso verbo ati-pṝ- è usato 10, 35, 14 “chi, o dèi, favorite alla conquista di vāja, cioè “vigore”, chi la vostra scorta, chi portate attraverso aṃhaḥ …”. Senza insistere sulla forza dimostrativa dell’argomento, si può osservare che tutti gli altri termini che indicano vari tipi di bene e male in questo poema (favore, ricchezza, solidità; malattia ecc.) sono di solito presi in senso letterale. Tuttavia, nulla ci impedisce di prendere queste parole in un senso metaforico, che 10, 63, 6 è persino probabile: “il sacrificio, offerto a voi (dèi), che ci farà attraversare l’aṃhas per ottenere il benessere (svastaye)”.

Per inciso, il termine in questione si contrappone a quello di “riparo, rifugio, sicurezza”, śarman - che tuttavia è altrettanto adatto a essere usato in senso metaforico - : 10, 66, 5 dove una varietà di divinità sono invocate per concedere śarman- che dà una triplice (cioè efficace) protezione contro gli aṃhas: (Sarasvat, Varuṇa, Pūṣan, Viṣṇu etc.) śárma no yaṃsan trivárūtham áṃhasah. Ancora più significativi sono 10, 25, 8 : “O Soma, tu che conosci le località più dell’uomo proteggici dalle ferite (druh-) e dagli amhas” (kṣetravittaro mánuṣo ví . . . druhó naḥ pāhy ámhasaḥ . . . ) - nella strofa precedente Soma è implorato di essere il mandriano di coloro che pregano -, e 1, 106, 1 : “Come un carro (viene portato) attraverso un passaggio difficile o stretto - durga-, che può anche stare per “un luogo di difficile accesso” o “difficoltà, pericolo o angoscia” in senso più generale, “portaci fuori da (salvaci da: níṣ pipartana) tutte le aṃhas”: pāpād asmān nirgamayya pālayata (Sāyaṇa). Si confronti anche il difficile passaggio 1, 180,5 : jūrṇó vām ákṣur áṃhasaḥ; sebbene l’interpretazione di Geldner24 “abgenutztist eure Stange(?) infolge der Not”25 sia molto problematica, bisogna ammettere che akṣu- sembra riferirsi a una parte del carro degli dèi a cui ci si rivolge (gli Aśvin); cfr. 1,184, 3. Se jūrṇa- significa “consumato, decaduto” e akṣu- si riferisce a un palo o a un oggetto simile - la parola è in relazione con akṣa- “asse”, che denota anche “la trave di una bilancia” e la “clavicola”?, akṣu probabilmente si riferisce ad altri pali o travi -, aṃhasaḥ può, in senso letterale, significare: “a causa della ristrettezza della strada o del passaggio”, a indicare la stretta fuga dal pericolo o dal male da parte di quegli uomini che furono salvati dal dio. Degno di nota è anche 3, 59, 2 “non viene ucciso né sconfitto (“wird nicht erschlagen noch ausgeraubt”, Geldner); l’aṃhas non si abbatte su di lui…”.

La parola aṃhas è accompagnata non di rado dal verbo tṝ- che, in senso generale, significa “attraversare (un fiume), passare attraverso, superare, raggiungere uno scopo o un fine”, e quindi anche “superare, oltrepassare, salvare”; dalla forma trā- “proteggere”; dalle forme appartenenti a pṛ- o ai suoi composti “portare oltre, salvare, salvare, scortare, proteggere, preservare, superare, ecc.”. Cfr. 2, 33, 3 párṣi ṇaḥ pārám aṃhasaḥ svastí …“(O Rudra,) portaci con successo dalla parte opposta dell’angoscia, allontana tutti gli assalti dei rápas (termine collettivo per indicare un tipo speciale di poteri dannosi)”; 1, 115, 6; 2, 34, 15; 3, 32, 14; 4, 2, 8; 6, 4, 8; 7, 23, 2; 40, 4;10, 65, 12.

Così troviamo 6, 2, 4 dviṣó áṃho ná tarati “egli supera le sue ostilità come aṃhas”; cfr. anche 10, 132, 7. ṚV. 5, 45, 11, l’ultima strofa di una poesia che tratta del primo sorgere del sole dopo la stagione delle piogge, esprime il desiderio di sopravvivere agli aṃhas: senza dubbio le difficoltà delle piogge che impedivano di viaggiare o causavano disagi a chi era in cammino. Il poeta di 6, 67, 8, usando la frase dāśúṣe ví cayiṣṭamáṃhaḥ “rimuovi, per il Tuo devoto, l’angoscia”, può aver preso a modello sulla base del frequente vi-ci- pathas “liberare o preparare strade”: cfr. ad es. l, 90, 4; 4, 37, 7; cfr. anche 4, 20, 9 vícayiṣṭho áṃhaḥ**. Non di rado le similitudini fanno luce sul significato attribuito a una frase dal poeta che l’ha usata: così 4, 2, 8 dove si chiede ad Agni di salvare l’uomo che lo onora da aṃhas come un cavallo: probabilmente il cavallo che dopo un incidente sulla strada rimette le cose a posto. Nella strofa 10, 132, 7, piuttosto oscura, si afferma che il purohita Nṛmedha che guida Agni come cavallo del carro che è il sacrificio, ha ottenuto la liberazione dagli aṃhas. 4, 12, 6 Gli aṃhas sono paragonati a dei piedi di ferro o a impedimenti simili. Di particolare interesse è l’associazione di aṃhas e durita-, che deriva da i- “andare” significa “andare male, una cattiva strada”, e quindi “una difficoltà, una fatica, un pericolo, un disagio, un male”. Confronta: 10, 39, 11 nā́ṃho aśnoti duritám nákirbhayám “né aṃhas né durita né paura lo raggiungono”; 126, 1 dove Sāyaṇa è di nuovo incline a considerare durita il risultato o l’effetto di aṃhas :

a. : pāpam, d. : tatphalarūpaṃ durgamanam; 6, 2, 11; 7, 82, 7 aṃhas, d. e tapas “dolore, sofferenza”; 2, 23, 5 ná tám áṃho ná duritáṃ kútaś caná nārātayas titirur ná dvayāvínaḥ “über ihn kommen weder Not noch Gefahr von irgend einer Seite, nicht Miszgunst noch Doppelzüngige”26 (Geldner). Per durga- si veda anche 1, 99, 1. Altri termini per idee correlate sono, ad esempio, gātu- “sentiero, via” nel senso di “spazio libero per muoversi, e quindi progresso, benessere”: si veda ad esempio: ṚV. 1, 96, 4; suga- “un buon sentiero, un percorso facile o di successo”: 1, 106, 5 “Bṛhaspati, rendici sempre un percorso facile” (sugáṃ kṛdhi); 102, 4 la stessa parola è associata a varivas “larghezza, spazio, libertà”.

In alcuni luoghi la scelta delle parole riflette le difficoltà della vita nomade e il desiderio di trovare un luogo di residenza adeguato: 6, 2, 11 dove l’augurio di suastíṃ sukṣitím “benessere e una buona dimora” è seguito da dviṣó áṃhāṃsi duritā́ tarema “che possiamo superare inimicizie, problemi e difficoltà”.

Che l’idea espressa da aṃhas e quella di “ampiezza” espressa da uru- e dalla sua famiglia fossero opposte appare da un numero considerevole di esempi: 1, 63, 7, Indra nel distruggere i nemici cambia, per conto di Pūru, aṃhas in várivas “stanza, spazio”, anche “agio, comodità”, e secondo Sāyaṇa dhanam “proprietà, ricchezza”: “da schafftest du … dem Puru Befreiung aus Not”27 (Geldner); 6, 37, 4 dove Indra, il più ampio possibile nell’elargire il dono sacrificale28, afferma di “girare intorno”, cioè di evitare gli aṃhas, che è parafrasato da Sāyaṇa: pāpaṃ yajñasaṃbandhi “male connesso al sacrificio”. ṚV. 1, 58, 8 Agni è pregato di proteggere l’elogiatore dagli aṃhas per mezzo di fortezze di ferro - cioè con un aiuto efficace (cfr. Sāyaṇa) -, il termine per “proteggere” è uruṣya; cfr. anche st. 9; 1, 91, 15 lo stesso verbo è usato in relazione alle imprecazioni: proteggici da i. (uruṣyā ṇo abhíśaṣṭeḥ), salvaci dagli aṃhas”; 4, 55, 5 “il Signore (con ogni probabilità: Varuṇa) può proteggerci (uruṣyet) dagli aṃhas che hanno origine con gli estranei, Mitra da quelli che hanno origine con gli amici”; 7, 1, 15 si afferma che Agni protegge dal nemico geloso e salvaguarda (uruṣyāt) dagli aṃhas. A questo proposito è importante notare che il contrasto geografico ed economico tra le montagne, strette, ostili e sterili, e le pianure, ampie, invitanti e produttive, è stato espresso non raramente con le parole di un significato simile: l’avestico ravah - che può essere reso con “spazio libero, paese aperto” e “libertà, campo libero, libertà” - un ideale così desiderato che ci si aspetta29 si realizzi in paradiso: Yt. 3, 4 - è nel composto ravas.čarāt- usato per caratterizzare quegli animali che si muovono nelle pianure, non nelle montagne (Yt. 8, 36). Questa parola è generalmente considerata in relazione con il gruppo tedesco Goth. rûms, Germ. raum “ampio, largo, spazioso”, l’inglese room; cfr. Lat. rus “paese aperto”. Lat. rūs “paese aperto”.

Altri opposti di aṃhas sono la ricchezza e la felicità: 6, 4, 8 “su sentieri ‘senza lupo’”; 6, 11, 6 dove la ricchezza è un rimedio a aṃhas; la proprietà: 4, 20, 9; “benessere” (svasti-), cfr. 5, 51, 13; “vita e capacità fisiche”. (indicato da caratha- “andare”): 1, 36, 14; continuazione della vita: 4, 12, 6. La preghiera di protezione contro il male chiamato aṃhas è accompagnata dal desiderio di vedere il bestiame in buone condizioni: 8, 18, 6. Ṛgvedakhila 2, 6, 18 Sch. aṃhas è coordinato con enas “peccato” e opposto a rāyaspoṣa- “aumento di ricchezza e proprietà”. Che aṃhas si sia trasformato in un termine generale per “male” (pāpa- Sāyaṇa) può risultare anche dal frequente uso di verbi per “raggiungere, venire su” ecc. da un lato, e di termini generali per proteggere o liberare dall’altro: cfr. ad es. 3, 59, 2 naínam áṃho aśnoti; 6, 3, 2 nāṃho mártaṃ naśate; 7, 82, 7; 1, 18, 5 dakṣiṇā pātv áṃhasaḥ. Che l’idea espressa da aṃhas avesse a volte un carattere piuttosto serio può apparire anche da 6, 16, 31 dove l’“angoscia” consiste in un immediato pericolo di vita, causato dall’arma di un nemico; cfr. probabilmente anche 7, 23, 2; 10, 36, 2 aṃhas è associato a riṣ- “ferita” e a Nirṛti, cioè la dea della distruzione o della perdizione; nella strofa successiva aṃhas sembra essere contrapposto alla sicurezza della luce solare: letteralmente la luce del sole, inoffensiva e sicura. A volte aṃhas si riferisce ovviamente alla malattia: 10, 97, 15 dove si dice che le erbe medicinali liberano, per ordine di Bṛhaspati, dall’*aṃhas. * ṚV. 1, 118, 8 un uomo era in difficoltà perché la sua mucca non produceva latte.30

In una serie di passaggi il termine aṃhas deve aver avuto un significato molto generale: “male, cattivo”. Qui l’interpretazione preferita da Sāyaṇa, pāpa, è senza dubbio pertinente. Cfr. 6, 48, 831, dove Agni è invocato per proteggere l’uomo, per tutta la sua vita, contro aṃhas; 7, 15, 332; 1333, 1534. Vale la pena notare che, qui e altrove, è il fuoco ardente che, naturalmente a causa del suo carattere di distruttore delle influenze maligne35, viene esplicitamente descritto come esercitante questa funzione protettiva, che può essere considerata come uno dei motivi fondamentali del culto del fuoco. Vedi anche 1, 18, 5; 93, 8; 136, 5; 4, 53, 5; 5, 31, 13; 6, 67, 8; 8, 31, 2; 9, 56, 4.

Di particolare interesse è la connessione con bhaya-: “paura, timore; pericolo, rischio” e parole relative: 2, 28, 636 Varuṇa è invocato per liberare la persona che parla da aṃhas come un vitello da una corda e per tenere lontana la paura; cfr. anche 10, 35, 14; con l’oscurità: 7, 71, 5 (tamas); con la battaglia o la competizione: 1, 54, 1; malattia: 8, 18, 10 allontana la malattia, il fallimento (sridh-), la cattiva volontà (durmati-) e ci protegge da aṃhas; cfr. 2, 33, 2; gli orsi e le armi dei dāsas (non arii): 8, 24, 27; odio o ostilità: 2, 33, 2; 6, 44, 16; 10, 24, 3; colpa o disonore: 1, 115, 6; vari tipi di demoni o esseri malvagi: 9, 104, 6 rakṣás, atri- “divoratore”, e dvayu- “uomo disonesto”; 1, 36, 14; 4, 3, 14; 7, 15, 13; 15; amati- “indigenza” e durmati- “cattivo”. disposizione d’animo”: 4, 11, 6; insoddisfazione e superbia: 6, 3, 2. Si può notare che il v. 7, 15, 13 è prescritto da uno degli autori del ṛgvidhāna37) in un rito eseguito per annientare la colpa causata da “miriadi di peccati” (2, 25, 3-5).

A volte si dice che l’aṃhas ha origine da una fonte ben precisa, o che appartiene a un essere ben preciso. Confronta 4, 2, 9 naínam ámhaḥ pári varad aghāyóḥ “l’afflizione (disturbo) causata dal maligno non deve circondarlo”; sebbene il senso metaforico sia ovvio, il verbo “circondare” invece di “irrittare, infastidire” può essere una reminiscenza del significato originale di aṃhas; 10, 164, 4 aṃhas dei nemici (“Bedrängnis der Feinde” Geidner); 8, 19, 6 menzioni di aṃhas causati da dèi o uomini; 7, 104, 23 aṃhas che hanno origine in cielo e sulla terra.

Nell’Atharvaveda il senso originario del termine in esame è ancora più caduto in secondo piano. Fa parte di quelle manifestazioni del male contro le quali l’uomo cerca di proteggersi con gli amuleti: 2, 4, 3 “che questo amuleto che sovrasta il viṣkandha - definito dal commento in 1, 16, 3 come disordine o disturbo causato dai demoni e che ostacola il movimento - ci protegga dall’angoscia (aṃhas)”; sebbene l’uso di questo rimedio sia descritto con una profusione di termini di vari mali, l’osservazione fatta dal commento: “(questo testo serve) a contrastare la stregoneria, a proteggere se stessi, a eliminare gli ostacoli” potrebbe essere stata ispirata da questo verso. Cfr. anche 4, 10, 1, dove si invoca un amuleto di conchiglie di perle legato in una cerimonia per la lunga vita (cfr. Kauśikasūtra 58, 9) per proteggersi dalle angosce. Altrove le divinità sono invocate per lo stesso motivo: 2, 28, 1 (Mitra); 6, 3, 2 (Soma); 11, 6, 1-6 (una grande varietà di divinità); 10-21 (divinità e altri esseri o entità potenti); cfr. anche 4, 23, 1-29, 7; 1, 31, 2 dove l’ aṃhas si combina con le catene di Nirṛti- (“perdizione”). Oppure ci si aspetta che le acque purificatrici annientino aṃhas: 7, 112, 1; 10, 5, 22; 14, 2, 45; o erbe: 6, 96, 1; 8, 7, 13; o riso e orzo: 8, 2, 18; animali vari: 11, 6, 8.

Ath. V. 8, 7, 13 la parola aṃhas è associata all’idea di morte; 2, 28, 1 a quella di morire prematuramente; 8, 2, 18 a yakṣma- una classe di malattie di natura alimentare (il testo è per prolungare la vita); 4, 10, 3 a malattia, miseria o indigenza e a una classe di esseri malvagi chiamati sadānvās; 6, 45, 3 a durita- (“difficoltà”, Whitney-Lanman),38 vedi sopra, cfr. anche 7, 64, 1; 10, 5, 22; 8, 4, 23 con demoni, stregoneria ecc.; 6, 45, 3 l’afflizione chiamata aṃhas sembra essere una cattiva conseguenza del “procedere falsamente”; 7, 112, 1 s. una maledizione sembra essere la sua origine o, cosa più probabile, è associata a una maledizione (cfr. 6, 96, 1 s.); 7, 64, 1 la causa dell’afflizione e della difficoltà è un minaccioso uccello nero che ha fatto cadere qualcosa; 10, 5, 22 falsità pronunciate; 19, 44, 8 menyogna (anṛtam) e aṃhas sembrano essere identici; cfr. 9.

Aṃhas, 6, 99, 1, può invece essere causato dagli esseri umani: 9, 2, 3 viene pronunciato l’augurio che coloro che escogitano angosce - il termine usato è il relativo aṃhūraṇa- - siano afflitti da molteplici mali. L’altro luogo in cui compare il termine aṃhūraṇa- (almeno in uno dei suoi “significati speciali” o “sviluppi” espressi da un derivato) è interessante per l’antitesi tra “angoscia” e “ampiezza” (varimatas): “Tu, O Indra, a causa dell’ampiezza, Tu contro ‘l’angoscia’ io chiamo”: il commentatore ha senza dubbio ragione nell’interpretare queste parole: “per il bene dell’ampiezza” (urutvād dhetoḥ).

Può essere interessante aggiungere alcuni particolari presi in prestito da altri testi vedici. Vāj. Saṃh. 4, 10 a un bastone di legno udumbara dato dal sacerdote adhvaryu all’istituente del sacrificio viene detto: “Alzati, O albero; essendo eretto proteggimi dall’angoscia (aṃhas) fino alla fine di questo sacrificio”. Qui il danno è di carattere generale. Cfr. ad es. anche Taitt. Br. 3, 6, 1, 2. In 12, 9 - una delle formule relative al trattamento di Agni della pentola di fuoco e alla preparazione dell’altare di fuoco āhavanīya - Agni viene implorato di tornare con cibo e vita e di preservare coloro che pregano dagli aṃhas. In 20, 14 ss. la persona che parla si rivolge ad Agni, Vāyu e Sūrya chiedendo loro di liberarlo da “quel ‘peccato’ e da ogni angoscia” (le parole usate sono enas [= malvagità, crimine, peccato, colpa] e aṃhas) che ha commesso e che ha suscitato l’ira degli dèi: una di quelle preghiere di liberazione generale dal “male” o dal “peccato” che si trovano spesso in questi documenti.39 Un altro passaggio in cui l’ aṃhas non è specificato è 33, 42: “O dèi, liberateci dall’angoscia e dal disonore (nir aṃhasaḥ pipṛrtā nir avadyāt) quando il sole è sorto”. Si intende però un male particolare 19, 10: la “dea” del colera (o di una malattia simile) Viṣūcikā40 che protegge l’uomo dagli animali selvatici, è portata a proteggere il cliente del sacerdote dall’angoscia, cioè a non attaccarlo.

Preghiere simili si trovano nello Yajur-veda. Nel Taittirīya-saṃhita 1, 8, 1, 1 si implora la dea della perdizione, Nirṛti, “di liberarlo dagli aṃhas”; 2, 3, 13, 1 Indra e Varuṇa (“con il loro corpo forte, protettivo e brillante”); 4, 7, 15, I, Agni; 4, 3, 13, 5, i Marut. L’autore sottolinea il potere di Indra di liberare l’uomo dagli aṃhas: 2, 2, 7, 3 s. “chi è colto da sventura dovrebbe offrire una torta su undici cocci a Indra, liberatore dall’ansia (aṃhomuc-), l’ansia (aṃhas) è sventura (pāpman-)…”. Cfr. anche 2, 4, 2, 2; 3. Una formula (ibid. 3, 1, 4 i) che si trova anche in diversi śrautasūtra (ad esempio Āpast. 7, 17, 3)41 è quella che placa il male causato dal comportamento infausto dell’animale sacrificale e che implora Agni “di liberare la persona che parla, da quel peccato (enas), e da tutte le disgrazie (aṃhas)”. TS. 4, 3, 13, 4 il poeta chiede ai Marut di sciogliere i legami della tribolazione; invece di aṃhasas il verso corrispondente nell’Ath. V., 7, 77, 3 ha enasas “peccato, male”. Cfr. anche 3, 2, 4, 3. Infine, l’uomo il cui nemico è superiore a lui, è descritto come colto da “problemi o tribolazioni” (aṃhas): 2, 4, 2, 3.

Si può dire qualcosa sull’aṃhas nei Brāhmaṇa e in altri testi vedici, nei quali non è molto frequente. Sāṅkh. (Kauṣ.) Br. 26, 4 significa “afflizione, prova, tribolazione” in senso piuttosto generale: “è un aṃhas al sacrificio se il sacerdote nella sadas richiama l’attenzione su un difetto passato inosservato”; tuttavia, la tribolazione può essere una “oppressione”. Una formula molto interessante citata, con alcune varianti, in diverse opere (ŚatBr. 1, 5, 1, 22; Āp. Śr. sū. 6, 2, 2, 1; Āsv. Śr. sū. 1, 2, 1; Śāṅkh. Śr. sū. 1, 6, 4 recita come segue: “I sei grandi devono proteggermi dagli aṃhas (ṣaṇ morvīr aṃhasas pāntu), cioè il fuoco, la terra, l’acqua, il potere della vegetazione e il successo vittorioso (vāja-), giorno e notte” (SatBr.), “ …. il cielo e la terra, l’acqua e le erbe medicinali, il cibo rinfrescante (il vigore) e la vitalità giovanile” ( … ūrk ca sūnṛtā ca, Āp.), oppure “il cielo e la terra, il giorno e la notte, l’acqua e le erbe” (Śāṅkh.). L’antitesi uru: aṃhas è di nuovo evidente, tanto più che le potenze42 enumerate sono rappresentanti di quella benefica “ampiezza” ed estensività, che porta l’uomo attraverso le difficoltà della vita. È chiaro che nella mente di chi componeva queste formule le idee associate alla terra, all’acqua, alle erbe, alla giovinezza ecc. erano opposte agli aṃhas. Con l’eccezione della notte - che però in connessione con il giorno serve solo a esprimere l’idea del tempo - questi “concetti”, fenomeni o poteri sono tutti non solo favorevoli, ma addirittura necessari alla vita, al benessere e alla felicità dell’uomo: l’ampiezza del cielo, dell’atmosfera e della terra permettono alle potenze celesti di produrre gli effetti desiderati, senza l’acqua non è possibile la fertilità, senza la vitalità giovanile la comunità è destinata alla morte. Le conseguenze negative di qualsiasi evento che impedisca a questi poteri di operare e di manifestare la loro “ampiezza” sono quindi chiamate aṃhas. Nel sūtra di Āpastamba la formula di cui sopra è seguita da Taitt. Saṃh. 4, 7, 15w (ṚV. 4, 12, 6) “come liberaste, o luminosi (gli dèi), la mucca bufalo legata per i piedi, così rimuovete da noi le tribolazioni (aṃhas); la nostra vita sia ulteriormente prolungata”, O Agni”, e Taitt. Br. 2, 5, 8, 3 “liberate noi che, per così dire, siamo stati presi in una trappola”.

Un’altra formula (Maitr. Saṃh. 4, 13, 9: 212, 12; ŚatBr. 1, 9, 1, 20; TBr. 3, 5, 10, 5; Āśv. Śr. sū. 1, 9, 5 ecc.): iṣṭaṃ ca vittaṃ (o: vītaṃ) cety ubhe cainaṃ dyāvāpṛthivī aṃhasas pātām “ cielo e terra devono proteggerlo dagli aṃhas”, si spiega (ŚatBr.) come segue: “vale a dire: il cielo e la terra devono preservarlo da eventi dolorosi” (mali che includono dolore, malattia, problemi ecc.)

Un’altra formula interessante è quella di Taitt. Br. 3, 7, 7, 2; Taitt. Ār. Āndhra rec. 10, 47 c; Āp. Śr. sū. 10, 8, 9; Mahānār. Sū. 2, 47: “Tocchiamo da dietro - un atto eseguito per partecipare al potere - con la mente, il vento e il respiro, Prajāpati che è il mandriano del mondo; egli deve salvarci dalla morte, deve proteggerci dagli aṃhas; che possiamo noi vivere a lungo e raggiungere una grande età”. Altri passi che meritano di essere citati sono: Maitr. S. 4, 14, 17; Taitt. Br. 3, 7, 12, 2 ṛtena dyāvāpṛthivī ṛtena tvaṃ sarasvati kṛtān naḥ pāhy (ṛtān mā muñcata) aṃhasaḥ yad anyakṛtam … (anche Taitt. Ār. 2, 3, 1): qui ṛta- “norma, ordine cosmico e morale” è considerato un mezzo per liberare l’uomo dagli aṃhas, le potenze invocate sono il cielo e la terra e il fiume Sarasvatī che supera tutte le altre acque in purezza e grandezza, la migliore delle madri, che dona ricchezza, abbondanza, vitalità e “immortalità” e protegge i suoi adoratori contro i loro nemici.43 Taitt. Fr. 2, 4, 1, 6 agne rakṣā ṇo aṃhasaḥ; cfr. 2, 6, 6, 1; 2 da enas e aṃhas (Agni e Sūrya); cfr. anche 2, 8, 7, 9; “liberare”. (muc-) 1, 6, 1, 3.

Nei brāhmaṇa aṃhas è anche “qualcosa”, una potenza o un’influenza, che possono essere rimossi per mezzo di un sacrificio (ava-yaj-). Descrivendo i sacrifici eseguiti all’inizio delle stagioni, il Maitrāyaṇī Saṃhitā, 1, 10, 10 (cfr. Kāṭh. 36, 5) racconta che le creature, dopo essere state create da Prajāpati, erano aṃhogṛhīta- “colte dall’angoscia” perché i Marut avevano disperso le oblazioni del dio; volendo quindi curarle, egli produsse da sé il latte, e con il sacrificio rimosse l’aṃhas. Perciò, aggiunge il testo, il Varuṇapraghāsāḥ, cioè il secondo di questi sacrifici periodici, è considerato un’acquiescenza (o un’espiazione tramite sacrificio) dell’ aṃhas (aṃhasaḥaveṣṭi-). In altri testi - cfr. ad esempio Śat. Br. 2, 5, 2, 1; 23; Kāṭh. S. 36, 5 la cerimonia serve a liberare il popolo dal male chiamato insidia di Varuṇa, che in questo contesto si riferisce con ogni probabilità alla mancanza di cibo. Ciò è in accordo con il ruolo che i Marut - che si occupano della pioggia - hanno in questo rito: essi sono, oltre a Varuṇa, le divinità per il cui beneficio speciale vengono preparate le oblazioni. Una caratteristica importante di questo rituale è la cerimonia con cui la moglie del sacrificatore è chiamata ad ammettere quali amanti ha avuto e a offrire grani pestati allo stato grezzo. Secondo Maitr. Saṃh. 1, 11 quest’ultimo atto serve a placare gli aṃhas; se i grani sono arrostiti, questo male non viene espiato. Da altri particolari relativi a dettagli rituali in cui ricorre la stessa espressione “per placare l’angoscia”, risulta che il tipo specifico di male da cui liberarsi è l’aṃhas, un termine non incompatibile con la carestia e la fame. Altri atti dello stesso rituale sono compiuti per ottenere pioggia e cibo (ibid. 1, 12). Si dice infatti (ibid. 13) che con il Varuṇapraghāsāḥ si ottiene la pioggia. Dopo aver creato le creature ed espiato gli aṃhas, il dio di cui sopra desiderava distruggere il grande demone dell’ostruzione, Vṛtra (ibid. 14).

In una formula citata Sāmav. Saṃh. 2, 1182; Maitr. Saṃh. 1, 7, 1 : 109, 17 s. ecc. ecc. Agni viene invocato in questo modo: “Ritorna con il cibo che rafforza (ūrj-), ritorna, O Agni, con il cibo rinfrescante e la vita; proteggici di nuovo contro gli aṃhas”. Anche in questo caso l’aṃhas è chiaramente contrapposto a una sufficiente disponibilità di cibo. Queste parole sono seguite da “Ritorna con ricchezza, O Agni, ingrassa con la corrente, tutto nutre da ogni parte”. Altrove aṃhas è identificato con enas “peccato, colpa” e apsas “colpa nascosta, peccato”: 1, 10, 2 : 142, 1 ss.: “quale peccato abbiamo commesso, quale colpa nascosta abbiamo commesso - Tu sei il mezzo per espiare tutto questo aṃhas”. Da un altro passo, Maitr. Saṃh. 4, 8, 9 “La prosperità deve aumentare attraverso il latte coagulato e il burro chiarificato, il sacrificio deve liberare colui che sacrifica da aṃhas “, sembra che aṃhas e prosperità fossero opposti. In Āp. Śr. sū. 9, 11, 15 questa formula è usata in un rito da eseguire per cancellare le impronte impure per mezzo di una mucca.44 Cfr. anche Kāṭh. 10, 10; 36, 3. Secondo Kāṭh. 36, 1, le creature furono “colte da aṃhas” quando i Marut si erano concentrati sul loro luogo di nascita. “Preso da aṃhas” è anche l’uomo malato o malato (Kāṭh. 10, 9); egli dovrebbe quindi sacrificare a Indra aṃhomuc-; si veda anche Taitt. Br. 3, 9, 17, 4.

Occorre spendere qualche parola su questo composto aṃhomuc- “che libera dall’angoscia”, ṚV. 10, 63, 9 un epiteto accanto a “il benevolo” (sukṛt-) dato a Indra; AthV. 19, 42, 3 accanto a sutrāvan- “che salva bene” allo stesso dio (cfr. anche st. 4 e TS. I, 6, 12, 3; 4); cfr. anche Taitt. Br. 2, 7, 13, 3 ecc. VS. 4, 12 all’acqua bevuta da coloro che parlano: “liberi da ogni angoscia e malattia, . . . divini, immortali rafforzatori dell’ordine eterno (… ayakṣmā anamīvā anāgasaḥamṛta ṛtāvṛdhaḥ)”.45 Cfr. anche Śat. Br. 3, 2, 2, 20 e altri testi. Sacrificando ad Agni aṃhomuc ci si libera dagli aṃhas da cui si è presi (aṃhasā … gṛhitaḥ: Taitt. Br. 3, 9, 17, 4). In Maitr. Saṃh. 2, 2, 10 viene data una spiegazione del carattere di Indra come aṃhomuc-: eṣā vā Indrasya bheṣajā tanūr yad aṃhomukaṃhomuc è la forma (manifestazione) curativa di Indra”: egli libera dagli aṃhas (cfr. Kāṭh. 10,9). Confronta anche 2, 3, 1 dove gli dèi Mitra e Varuṇa sono implorati di liberare una persona dagli aṃhas con la loro forma ojas o manifestazione (ojasyā tanūḥ), con la loro forma sahas, con la loro forma yātu (cioè quel loro “corpo” utile contro la stregoneria: yātavyā tanuḥ, e con la loro rakṣasyā tanub, cioè la loro funzione antidemoniaca. Da queste formule si può concludere che aṃhas era equiparato all’attività malvagia dei demoni e degli stregoni e poteva essere contrastato da ojas “la sostanza-potenza dell’energia creativa e vitale” e da sahas “la sostanza-potenza della vittoria e della superiorità”. Cfr. anche Kāṭh. 11, 11. Indra aṃhomuc- e Indra sutrāman- “il buon protettore” sono associati: Maitr. Saṃh. 2, 6, 6. Oppure Indra aṃhomuc-, Agni aṃhomuc e Mitra, Varuṇa, Vāyu, Savitar, gli Aśvin, i Marut, il Cielo e la Terra, - tutti chiamati āgomucaḥ, cioè “i liberatori dal peccato o dalle trasgressioni”,46 e i viśve devāḥ enomucaḥ “liberatori dall’enas”: ibid. 3, 15, 11. Questi dèi sono i tipici soccorritori e protettori. Ibid. 4, 3, 9 la funzione di Indra aṃhomuc- è in qualche modo specificata “se uno ha commesso il peccato (enas) ‘al di qua della sua nascita’ questo dio lo libererà da essa”. Cfr. anche ibid. 4, 12, 3: 182, 15; 4, 14, 6, p. 223, 11; Taitt. Saṃh. 2, 4, 2, 2f.; 7, 5, 22. Per Agni, il dio del fuoco come aṃhomuc- cfr. ad es. anche Maitr. Saṃh. 3, 16, 5; Kāṭh. 22, 15 : 17, 4 s.; Taitt. Br. 3, 9, 16, 4.

Un uso curioso di aṃhas appare nella frase aṃhasas pati “Signore dell’angoscia” che in VS. 7, 30 e 22, 31 ricorre come nome del genio del tredicesimo mese o del mese intercalare; cfr. anche Taitt. Saṃh. I, 4, 14; 6, 5, 3, 4; Sat. Br. 4, 3, I, 20; Taitt. Br. 3, 10, 7, I. Poiché questo mese intercalare, necessario per mettere d’accordo i due periodi incommensurabili dati dal sole e dalla luna, era già noto in epoca vedica47 , un tredicesimo mese è ripetutamente menzionato nel brāhmaṇas,48 si può supporre che sia diventato presto oggetto di speculazione magico-religiosa. Poiché un altro nome sanscrito di questo tredicesimo mese è saṃsarpa-: “che scivola dentro”, era ovviamente considerato, in modo naturale, come una cosa che si inseriva a forza nell’ordine normale dei mesi. C’è spazio per l’ipotesi che questo sia il motivo per cui il male rappresentato da questa anomalia fosse considerato un aṃhas, perché in un certo senso era un aṃhas perché il suo genio era chiamato “Signore degli aṃhas”.49 Probabilmente era un male perché gli “anni bisestili” e i periodi intercalari sono ampiamente considerati infausti. “Das Schaltjahr50 ist im Volksglauben, wie alles vom Normalen und Geregelten Abweichende, unglückbringend. … Wichtige Unternehmungen gedeihen in einem Schaltjahr nicht. Was man baut oder anpflanzt, gerät nicht. In einem Schaltjahr ist manches verkehrt. Schalttage galten schon bei den alten Mexikanern als Unglückstage, an denen man nicht arbeiten durfte. Wer zu dieser Zeit geboren wurde, galt

als Unglückskind”51 Questa credenza popolare era anche indiana. In una descrizione molto interessante di alcune scene della vita religiosa dei Mandei nell’Iraq meridionale52 Lady Drower racconta che in occasione della loro festa dei cinque giorni (panja) - cioè le cerimonie da svolgere nei cinque giorni e un quarto che intercorrono tra la fine di un mese e l’inizio di quello successivo per far coincidere l’anno lunare con quello solare - ogni Mandaese deve battezzarsi, ricordare i propri morti e partecipare ai sacramenti per i defunti. Questo battesimo, molto antico, serve a scacciare il peccato; è una purificazione e un esorcismo dei demoni, che simboleggia la rinascita. La tribù dei Chang (Assam-Birma), che calcola undici mesi all’anno, riempie la parte rimanente con un periodo che non viene calcolato affatto, ma considerato come notte. Non può essere contato perché appartiene agli spiriti.53 Uno dei nomi sanscriti di questo mese non lascia spazio a dubbi: mala-māsa- “il mese dell’impurità”, un altro, malimluca- significa anche “ladro, rapinatore”; “folletto, demone” e “zanzara”. “Il mese chiamato Malimluca è inquinato (malina-) e nasce dal peccato (colpa: pāpa-); è condannato per tutti gli atti; dovrebbe essere scartato in tutti i riti in onore degli dei e dei padri defunti” (Gṛhya pariś.54. Il carattere “peccaminoso”, cioè ritualmente impuro, di questo mese extra-ordinario emerge anche da affermazioni come quella che si trova nell’Aitareya-brāhmaṇa (1, 12, 2 s.): il venditore di soma e il tredicesimo mese (che all’inizio aveva venduto il soma agli dèi) sono pāpa- “peccaminosi, malvagi; infausti”.

Passando ora ad altre parole correlate, la parola vedica aṃhati- può essere descritta come “angoscia, circostanze difficili”: ṚV. 1, 94, 2 l’uomo che è il favorito di Agni ha successo e autorità, i nemici e gli aṃhati- non lo affliggono (sá tūtāva naínam aśnoty aṃhatíḥ); 8, 75, 9 l’aṃhati- è descritto come proveniente da un odiatore malevolo, che schiaccia la vittima come le onde che battono una nave; 67, 2 Mitra ecc. si chiede di aiutare gli uomini a superare (ati-pṛ-) l’aṃhati, e a st. 21 questo termine è messo sullo stesso piano di “odio” (dveṣas), “ferite corporali” (rapas), e di un’espressione ellittica che, secondo Sāyaṇa, significa una rete chiusa; in 5, 55, 10 il poeta chiede ai Marut di condurre i suoi clienti e se stesso dall’aṃhati- verso il benessere (vasyas). I lessicografi indiani di epoca successiva spiegano questa parola con “malattia”. La radice del sostantivo aṅh-, fem. gen., presente in ṚV. 6, 3, 1 - dove in opposizione a pace e tranquillità si combina con tyajas - “difficoltà causate dall’abbandono” - ha un senso simile. Per la combinazione si confronti, nell’Avesta, Yt. 10, 22 ązaŋhat̰ … iϑiyaǰaŋhat̰

Tornando per un attimo al durita- di cui sopra, che non è stato interpretato correttamente da Grassmann,55 va osservato che questo termine piuttosto frequente, sebbene a volte si riferisca al peccato commesso, nella maggior parte dei casi significa qualcosa come “contrattempo, disastro, anche esteriore e vari mali”.56 Il senso originario doveva essere, come già detto, “andare male; qualcosa che è diventato cattivo”. È uno di quei termini che viene spesso usato nello stesso contesto di enas “peccato”, bhaya- “paura, allarme”, abhihrut- “ferita, danno”. Sebbene il verbo nayati “condurre”, a cui sono associati duritam aṃhas e dviṣaḥ “odiare” (10, 126, 1), possa, come i sostantivi, essere stato usato metaforicamente, la combinazione merita di essere menzionata: “l’uomo che Aryaman ecc. conduce è al sicuro da queste manifestazioni del male”. Cfr. anche 1, 41, 3; 2, 27, 5; 6, 51, 10; 10, 63, 13; 10, 126, 6; 10, 161, 3; 3, 20, 4; 4, 39, 1; 5, 3, 11; 5, 77, 3; 6, 15, 15; 7, 32, 15; 8, 97, 15; 9, 59, 3; 9, 70, 9; 10, 31, 1; 10, 96, 8.

Un senso più letterale si può ipotizzare anche ṚV. 6, 75, 10 puṣā naḥ pātu duritātPūṣan - il dio delle strade - deve proteggerci da durita-“ (“vor dem Abweg”, Geldner) - questa strofa appartiene a un testo usato per benedire una spedizione militare - e 9, 97, 16 dove si implora il soma di fornire a coloro che pregano buoni sentieri e buone strade, di fare ampiezza e di distruggere tutti i durita- (plurale); cfr. anche 1, 99, 1; 6, 68, 8; 8, 18, 17; 9, 62, 2; 8, 42, 3 “ci imbarchiamo nella barca che trasporta facilmente attraverso (il fiume) con la quale possiamo attraversare tutte le durita- (pl.)”; 10, 93, 6 “l’uomo che è protetto dagli Aśvin ecc. - il verbo usato è uruṣyatām - passa tutte le durita- (pl.) come un deserto”.

Altre parole che possono essere usate in contrasto con uru- “ampio, largo” - che, come abbiamo visto, è un opposto di aṃhu- e come tale può esprimere l’idea di “ampiezza, libertà, spazio ampio o libero, stanza” - sono nid “scherno, disprezzo; beffatore, biasimatore”, che 2, 34, 15 è coordinato con aṃhas: 5, 87, 6 te na uruṣyatā nidal; “proteggici dal disprezzo”; 6, 14, 5; pariṣūti- “lo spingere da tutti i lati, oppressione, vessazione”: 1, 119, 6 rebhám páriṣūter uruṣyathaḥ “ihr befreiet den Rebha aus der Umschnürung”57 - 9, 85, 8 questo “Umklammerung” (abbraccio) è “vielleicht perzonifiziert, eine dem Soma nachstellende Unholdin”58 -; abhiśasti- “imprecazione, dannazione; effetto dell’imprecazione, della disgrazia, del male, dell’accusa, della diffamazione” che in 1, 91, 15, combinandosi con aṃhas, dipende da uruṣya “proteggici, O Soma, dall’imprecazione e dall’angoscia” e in 8, 66, 14 è accompagnato da “disperazione” (amati-) e “fame”; aghāyat- “che intende ferire”: cfr. 4, 2, 6 víśvasmāt sīm aghāyatá uruṣya “rendilo ampio (cioè proteggilo) contro ogni essere maligno”; analogamente, 5, 24, 3; samṛti- “(ostile) contatto, conflitto”; 8, 101, 4.

L’importanza di questi sviluppi semantici e la luce che essi gettano sulle difficoltà dell’antica vita aria, molte delle quali come potenze da temere e venerare, vale la pena di considerare altre parole di carattere simile. Innanzitutto la coppia durga- e suga-. Come aggettivo durga- significa “di difficile approccio o accesso, impraticabile”, come sostantivo: “un passaggio difficile o stretto, un luogo di difficile accesso” e anche “terreno accidentato”, o “una roccaforte o cittadella”, quindi anche “una difficoltà, un pericolo, un’angoscia”: cfr. ad esempio -Ṛ.V. 8, 93, 10 “anche su una strada difficile, O Indra, procuraci un buon sentiero” (durgé cin naḥ sugáṃ kṛdhi); 6, 21, 12, anch’esso rivolto a Indra: “sii tu la nostra guida su strade buone, su strade difficili prepara una via” (sá no bodhi puraetā sugéṣūtá durgéṣu pathikṛt … ). Per determinate classi di peccatori la terra è difficile da percorrere: Ath. V. 12, 4, 23; nello stesso corpus, 10, 1, 16 “nessuna strada” (apatha-) è opposta a “luce” (lux), e la stregoneria che deve essere scacciata è ordinata “da una (strada) lontana oltre novanta difficili navigabili (suga-) torrenti”. Nel senso più esteso e generale di “difficoltà”: 19, 50, 2 (si implora la protezione della notte:) “facci passare sempre sopra le difficoltà (durgāṇi)”; 7, 63, 1. L’opposto suga- non è usato solo per “un buon sentiero”, ma anche per “un percorso facile o di successo, prosperità, benessere”. Confronta ad esempio Ṛ.V. 8, 93, 10 (vedi sopra); 6, 51, 15 kártā no ádhvann ā sugám “schaffet uns unterwegs gute Fahrt” (Geldner); 2, 23, 7; 5, 54, 6; e per l’uso “completamente metaforico”: 7, 104, 7 “le cose non devono andare bene con il criminale” (duṣkṛte mā sugam bhūt), cfr. 10, 86, 5; 1, 106, 5; particolarmente interessante è 1, 102, 4 ( = 6, 44, 18) dove sugam e varivas (parola legata a uru-) sono coordinati: asmábhyam Indra várivaḥ sugáṃ kṛdhi “schaff uns Freibahn und gute Fahrt” (Geldner); cfr. anche 9, 62, 2 vighnánto duritā puru sugākṛṇvántaḥ “die die vielen Fahrlichkeiten brechen und … gute Bahnen bereiten” (Geldner; soggetto: le gocce di soma), e 10, 113, 10 sugébhir víśvā duritā tarema vidó ṣū ṇa urviyā gādhám adyá “che possiamo passare (superare) con buoni sentieri (un percorso di successo) tutte le strade difficili (difficoltà); trovare per noi ampiamente un guado, oggi”.59 ṚV. 1, 91, 1 troviamo tváṃ rájiṣṭham ánu neṣi panthām “fa che Tu (Soma) ci guidi lungo la via più diritta”.

Per motivi di spazio è possibile soffermarsi solo su un altro punto. Compiendo alcuni sacrifici a Indra sutrāman - “Indra il protettore” - e a Indra aṃhomuc - “Indra che libera dall’angoscia”, si potevano ottenere benedizioni; la formula pronunciata in quell’occasione recitava come segue: “Che il re, uccisore di Vṛtra, sia il nostro re e uccida il nemico” (Taitt. Br. 1, 7, 3, 7; cfr. TS. 1, 8, 9, 2). Qui sembra esistere una relazione tra la grande impresa mitica, il combattimento di Vṛtra, e la liberazione dal male chiamato aṃhas. A questo proposito si può sottolineare il fatto innegabile che il nome stesso del grande antagonista di Indra deriva dalla radice vṛ- che significa: “coprire, circondare, ostacolare, trattenere, impedire, trattenere”. Ora, Vṛtra non è certamente identico ad aṃhas e vṛ- e aṃh- non sono radici sinonime. Ma, qualunque sia la visione del carattere originario del grande male o demone a cui possiamo aderire, esso rappresentava un ostacolo molto formidabile al benessere della comunità aria, sia che lo si descriva come un’entità che inglobava i fiumi o che causava altre ostruzioni. Il suo nome (“der Bedränger”) e il suo carattere dimostrano senza ombra di dubbio che la mente degli indiani vedici e dei loro antenati era molto preoccupata dal timore di essere chiusi e circondati, non solo per quanto riguarda le strade, i pascoli e i territori terrestri, ma anche per quanto riguarda il raggio d’azione delle potenze divine attive nei cieli e nell’atmosfera.60

Questo è un luogo adatto per discutere anche il termine vedico tyajas che, se non sbaglio, trasmette un senso quasi simile a quello di aṃhas. Le traduzioni proposte da Grassmann:61 “1) Wurfwaffe; 2) Angriff, Gewaltthat” sono meno convincenti di quelle date da Roth:62 “1) Verlassenheit, Noth; Gefahr; 2) Entfremdung, Abneigung, Missgunst, = krodha- Naigh. 2, 13”. Quest’ultima equivalenza è stata adottata da Geldner:63 - “wie (krodha-) bedeutet tyájas Zorn, Hass, Feindschaft” - la cui spiegazione della parola è stata giustamente respinta da Oldenberg.64 Questo studioso aveva senza dubbio ragione nel sostenere che lo studio del significato del sostantivo tyajas non può essere disgiunto da quello del verbo tyaj-. Si potrebbe infatti difendere la tesi che tyajas ‘originariamente’ denotava l’idea di “abbandono” in entrambi i sensi: “l’atto di rinunciare, rinunciare o abbandonare” e “lo stato di essere abbandonato”. Nelle comunità più o meno “primitive” l’isolamento, accompagnato da ansia e insicurezza, è molto temuto e considerato un male molto grande, che quando si manifesta in forma eclatante può essere considerato un potere. Per un uomo colpito da tyajas tutti i servizi erano - possiamo facilmente immaginare - rifiutati e la sua stessa esistenza nella comunità era molto difficile. Che il verbo tyaj- possa esprimere questo significato è fuor di dubbio: ṚV. 10, 71, 6 “chi ha piantato in asso un amico non conosce il sentiero della virtù” (yás tityāja sacivídaṃ sákhāyam ... nahí pravéda sukṛtásya pánthām65. Per quanto riguarda il sostantivo ṚV. 1, 166, 12 può essere citato come uno dei luoghi più evidenti: índraś caná tyájasā ví hruṇāti táj jánāya yásmai sukṛte árādhvam “auch Indra macht sie (die Gabe der Marut) nicht aus Feind schaft dem frommen Mann abwendig, dem ihr sie geschenkt habt”, piuttosto: “anche Indra non vanifica ciò a scapito di quell’uomo”. … abbandonandolo” (cfr. anche Sāyaṇa tyāgena); in 1, 119, 866si parla di un uomo (Bhujyu) che si lamentava in lontananza, perché “schiacciato” (“ins Wasser hinabgestoszen”, Geldner67 o “oppresso”) dal tyajas (“abbandono”) del proprio padre. In 6, 62, 10 il male indicato dalle parole sánutyena tyájasā è imprecato sulla testa dei congiurati: l’aggettivo, derivante da sanutar “in disparte, fuori, lontano, lontano da” è usato in opposizione ad antara- “vicino” - cfr. 6, 5, 4 dove ha un senso simile - e una probabile traduzione potrebbe essere “torcere il collo ai congiurati per mezzo di un abbandono lontano da parte degli uomini (esseri umani, cfr. 8, 71, l)”, e “oppressi”. 8, 71, l)”, cioè “distruggerli nell’isolamento”. Altrove questo significato è comunque possibile: ṚV. 8, 47, 7 coloro che sono protetti dagli Āditya non sono afflitti da tyajas intensi e pesanti, entrambi gli aggettivi, tigma- e guru-, ammettono un uso “metaforico”; 1, 169, 1;[68] 4, 43, 4 (uruṣyatam nella stessa riga); 10, 79, 6; 10, 144, 6; 6, 3, 1 (cfr. sopra) yámdéva pāsi tyájasā mártam áṃhaḥ “l’uomo mortale che Tu proteggi da aṃha come risultato di tyajas (abbandono, isolamento)”.


ā́ vo’rvā́cī sumatírvavṛtyādaṃhóścidyā́ varivovíttarā́sat ǁ

yajñaḥ ǀ devānām ǀ prati ǀ eti ǀ sumnam ǀ ādityāsaḥ ǀ bhavata ǀ mṛḷayantaḥ ǀ

ā ǀ vaḥ ǀ arvācī ǀ su-matiḥ ǀ vavṛtyāt ǀ aṃhoḥ ǀ cit ǀ yā ǀ varivovit-tarā ǀ asat ǁ

sapta ǀ maryādāḥ ǀ kavayaḥ ǀ tatakṣuḥ ǀ tāsām ǀ ekām ǀ it ǀ abhi ǀ aṃhuraḥ ǀ gāt ǀ

sunīti-bhiḥ ǀ nayasi ǀ trāyase ǀ janam ǀ yaḥ ǀ tubhyam ǀ dāśāt ǀ na ǀ tam ǀ aṃhaḥ ǀ aśnavat ǀ

na ǀ tam ǀ aṃhaḥ ǀ na ǀ duḥ-itam ǀ kutaḥ ǀ cana ǀ na ǀ arātayaḥ ǀ titiruḥ ǀ na ǀ dvayāvinaḥ ǀ

yaḥ ǀ asmai ǀ havyaiḥ ǀ ghṛtavat-bhiḥ ǀ avidhat ǀ pra ǀ tam ǀ prācā ǀ nayati ǀ brahmaṇaḥ ǀ patiḥ ǀ

yuvam ǀ dhenum ǀ śayave ǀ nādhitāya ǀ apinvatam ǀ aśvinā ǀ pūrvyāya ǀ

śatám pūrbhíryaviṣṭha pāhyáṃhasaḥ sameddhā́ram śatám hímāḥ stotṛ́bhyo yé ca dádati ǁ

viśvāsām ǀ gṛha-patiḥ ǀ viśām ǀ asi ǀ tvam ǀ agne ǀ mānuṣīṇām ǀ

śatam ǀ pūḥ-bhiḥ ǀ yaviṣṭha ǀ pāhi ǀ aṃhasaḥ ǀ sam-eddhāram ǀ śatam ǀ himāḥ ǀ stotṛ-bhyaḥ ǀ ye ǀ ca ǀ dadati ǁ

uta ǀ asmān ǀ pātu ǀ aṃhasaḥ

agne ǀ rakṣa ǀ naḥ ǀ aṃhasaḥ ǀ prati ǀ sma ǀ deva ǀ riṣataḥ ǀ

tvam ǀ naḥ ǀ pāhi ǀ aṃhasaḥ ǀ doṣā-vastaḥ ǀ agha-yataḥ ǀ

dā́meva vatsā́dví mumugdhyáṃho nahí tvádāré nimíṣaścanéśe ǁ

apo iti ǀ su ǀ myakṣa ǀ varuṇa ǀ bhiyasam ǀ mat ǀ sam-rāṭ ǀ ṛta-vaḥ ǀ anu ǀ mā ǀ gṛbhāya ǀ

dāma-iva ǀ vatsāt ǀ vi ǀ mumugdhi ǀ aṃhaḥ ǀ nahi ǀ tvat ǀ āre ǀ ni-miṣaḥ ǀ cana ǀ īśe ǁ

Cfr. A. Hillebrandt, Ritualliteratur, Vedische Opfer und Zauber, (Grundriss) (Strassbmg, 1897), p. 116 s.; J. J. Meyer, Trilogie altindischer Miichte und Feste der Vegetation (Zilrich-Leipzig, 1937), III, p. 255 s.

Traduzione: Nella credenza popolare, l’anno bisestile, come tutto ciò che si discosta dalla normalità e dalla regolamentazione, è sfortunato… Le imprese importanti non prosperano in un anno bisestile. Ciò che si costruisce o si pianta non cresce. Molte cose vanno storte in un anno bisestile. Anche gli antichi messicani consideravano i giorni bisestili come giorni sfortunati in cui non si poteva lavorare. Chiunque sia nato in questo periodo è considerato come un bambino sfortunato.

trad. forse personificato, un demone che insegue il Soma

umgehen “ (Geldner, o.c., III, p. 336) (Da intendersi in senso figurato. Il cantante desidera evitare felicemente tutti gli scogli del discorso). Mi sembra che l’ultima parte di questo commento potrebbe essere formulato in modo più generale.

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  1. Recentemente, P. Thieme ha dato prova di una fiducia un po’ esagerata nel valore delle etimologie (nel periodico Oriens, VI, p. 396 ss.). 

  2. Si veda ad esempio P. Radin, Die religiöse Erfahrung der Naturvölker (Zurigo, 1951). 

  3. Gonda, Aspects of early Viṣṇuism (Utrecht, 1954), p. 61 ss. ecc. 

  4. S. Rodhe, Deliver us from evil (Lund-Copenaghen, 1946), p. 40 ss. 

  5. O.c., p. 69 f. 

  6. Cfr. L. Renou, “Les éléments védiques dans le sanskrit classique”, Journal Asiatique, 1939, p. 390. 

  7. RV 2, 26, 4 yó asmai havyáirghṛtávadbhirávidhatprá tám prācā́ nayati bráhmaṇaspátiḥ ǀ 

  8. yajñó devā́nām prátyeti sumnámā́dityāso bhávatā mṛḷayántaḥ ǀ 

  9. Mitra trova una via d’uscita anche dall’angoscia, un percorso libero verso un luogo di residenza 

  10. “Die arischen Nomaden und Viehzüchter begehren vor allem Raum (aw. zavah-) und fürchten die Enge (ązah-, ved. aṃhas-), auch nachdem sie seszhaft geworden sind, genau so wie die Germanen (Tac. Germ. 16)” [I nomadi e pastori ariani desiderano soprattutto lo spazio (aw. zavah-) e temono la ristrettezza (ązah -, ved. aṃhas-), anche dopo essere diventati sedentari, proprio come i popoli germanici]. J. Hertel, Die Sonne und Mitra im Awesta (Lipsia, 1927), p. 134. 

  11. Vedi anche K. F. Geldner, Der Rig-veda übersetzt, II (Harvard, 1951), p.390 

  12. Per -- si veda J. Wackernagel-A. Debrunner, Altindische Grammatik, II, 2 (Göttingen,1954), p. 857. Vale la pena notare che l’aggettivo -- appartiene ad aṃhu-, anche se in molti altri casi -- si trova accanto a sostantivi formati, come aṃhas-, con il suffisso -as-: si veda il mio Ancient-Indian ojas… (Utrecht, 1952), p. 82 s. 

  13. saptá maryā́dāḥ kaváyastatakṣustā́sāmékāmídabhyáṃhuró gāt ǀ 

  14. Geldner, o.c., Ill, p. 127, che traduce “der Eingeengte (?)”. 

  15. “le ultime e più alte idee o simboli dell’essere primordiale, a cui la speculazione deve fermarsi” 

  16. Per Brhaspati si veda Macdonell, o.c., p. 101 ss. 

  17. ṚV. 2, 23, 4 sunītíbhirnayasi trā́yase jánam yástúbhyam dā́śānná támáṃho aśnavat ǀ 

  18. ṚV. 2, 23, 5 ná támáṃho ná duritám kútaścaná nā́rātayastitirurná dvayāvínaḥ ǀ 

  19. Per il carattere di queste ‘etimologie’ si veda Lingua, Int. Review of Gen. Ling.,V, p. 61 ss. 

  20. yó asmai havyáirghṛtávadbhirávidhatprá tám prācā́ nayati bráhmaṇaspátiḥ ǀ 

  21. La forma urusyati è stata discussa da L. Renou, Grammaire de la langue védique (Paris, 1952), p. 303, e da T. Burrow, The Sanskrit language (London, 1955), p. 132, n. 1 e 188; per la costruzione, cfr. Renou, p. 350. 

  22. Cfr. Macdonell, ivi, p. 35 sgg.; S. D. Atkins, Pūṣan in the RigVeda (Princeton, 1941), che tratta anche di Pūṣan come dio dei sentieri (p. 16 sgg.). 

  23. Si veda anche H. Lommel, Die Religion Zarathustras (Tübingen, 1930), p. 113, 115. 

  24. Geldner, o.c., I, p. 259. 

  25. il vostro palo(?) è consumato a causa delle difficoltà. 

  26. Non lo colpiscono né l’angoscia né il pericolo da nessuna parte, né la cattiva volontà né la doppiezza. 

  27. sei riuscito … la liberazione dei Pūru dall’angoscia 

  28. Si veda anche Geldner, o.c., II, p. 134. 

  29. Se l’interpretazione congetturale di Geldner di questo passaggio è corretta. 

  30. ṛgveda I, 118, 8 yuvám dhenúm śayáve nādhitā́yā́pinvatamaśvinā pūrvyā́ya ǀ 

  31. ṛgveda 6, 48, 8 víśvāsām gṛhápatirviśā́masi tvámagne mā́nuṣīṇām ǀ 

  32. utā́smā́npātváṃhasaḥ 

  33. ágne rákṣā ṇo áṃhasaḥ práti ṣma deva rī́ṣataḥ ǀ 

  34. tvám naḥ pāhyáṃhaso dóṣāvastaraghāyatáḥ ǀ 

  35. Cfr. ad es. anche 1, 97, 1 “scaccia il male con le tue fiamme, o Agni, donaci, fiammeggiando, la ricchezza” (ápa naḥ śóśucadaghámágne śuśugdhyā́ rayím); Taitt. Br. 2, 4, 1, 6 “Agni scaccia gli esseri demoniaci, il luminoso fiammeggiante, l’immortale, leggero, purificatore, (che è) degno di riverenza”. 

  36. ápo sú myakṣa varuṇa bhiyásam mátsámrāḷṛ́tāvó ‘nu mā gṛbhāya ǀ 

  37. Cfr. J. Gonda, The ṛgvidhāna (Utrecht, 1951), p. 55 ss. 

  38. W . D. Whitney-Ch. R. Lanman, Atharvaveda Saṃhitā (Harvard, 1905), p. 314. 

  39. Si veda anche Rodhe, o.c., p. 41 s. 

  40. Cfr. J. Jolly, Medicin (Grundriss) (Strassburg, 1901), p. 75 ss. 

  41. E in altri testi: vedi A. B. Keith, The Veda of the Black Yajus School (Harvard, 1914), p. 227, n. 2. 

  42. Per il “potere” si veda ad esempio anche M. P. Nilsson, Geschichte der griechischen Religion, I (München, 1941), p. 37 s.; 41 s.; 60 ss. 

  43. Si veda Mcdonell, o.c. p. 86. 

  44. Cfr. W. Caland, Das Śrautasūtra des Āpastamba, II (Amsterdam, 1924), p. 92 e segg. 

  45. Cfr. anche Ath. V. Par. 46, 7, 3. 

  46. Cfr. ad es. Rodhe, o.c., p. 138 ss. ecc. 

  47. Si vedano ad esempio ṚV. 1, 25, 8 e l’Indice (vol. 50) della nota serie Sacred Books of the East (Oxford). 

  48. Si vedano, ad esempio, i Śat. Br. 5, 4, 5, 23; 6, 2, 2, 29; 9, 1, 1, 43. 

  49. Per il rapporto tra le potenze e le loro divinità si veda il trattato dell’autore Sūnuḥ sahasas, che apparirà altrove. 

  50. Sulle difficoltà di calcolo dei mesi nelle società primitive, si veda in particolare M. P. Nilsson, Primitive time-reckoning (Lund, 1920), p. 240 ss. 

  51. G. Jungbauer, in Handworterbuch des deutschen Aberglaubens, VII (Berlino-Lipsia, 1935/36), 996 ss. “In Bezug auf das Unglück selbst, das dem Menschen an diesen Tagen droht, heiszt es oft ganz allgemein dasz alles miszlingt, was man unternimmt” (ibidem, 1438) 

  52. E.T. Drower, “ “Scenes and sacraments in a Mandaean sanctuary”, Numen, Int. Rev. for the Hist. of Religions, III (1956), p. 72 ss. 

  53. J.E. Hutton, The Serna Nagas (Londra, 1921), p. 262, n. 1. 

  54. Citato da P. V. Kane, History of Dharmaśāstra, IV (Poona, 1953), p. 546. 

  55. “Eigentlich “das schlimm ergehende” “, Worterbuch, 613. 

  56. Cfr. Rodhe, o.c., p. 74 ecc. 

  57. liberate la Rebha dalla prigionia 

  58. Geidner, o.c., III, p. 78. 

  59. “Bildlich zu verstehen. Der Sänger wünscht alle Klippen der Rede glücklich zu 

  60. Vedi anche Aspects of early Viṣṇuism (Utrecht, 1954), p. 28 ss. ecc. 

  61. Grassman, Wörterbuch, 553 

  62. Roth, in Petr. Dict., III, 412. 

  63. R. Pischel e K. F. Geldner, Vedische Studien, II (Stuttgart, 1897), p. 32 e segg. 

  64. H. Oldenberg, “Uber tyajas”, Zeitschrift der deutschen Morgenl. Ges., LV (1901), p. 281 s. (con riferimenti e particolari non citati nel testo precedente). - È intenzione dell’autore tornare sull’etimologia di questa parola in un altro articolo. 

  65. Per lo stesso uso nei testi successivi si veda ad esempio Petr. Dict., Ill, 408 

  66. Si veda soprattutto Oldenberg, o.c., p. 281. 

  67. Cfr. anche ṚV. 7, 68, 7 dove Bhujyu viene piantato in asso da compagni malevoli in mezzo alle onde.