Louis Renou - Le letterature dell'India

Il veda e l'epopea

LA LETTERATURA SANSCRITA

IL VEDA E L’EPOPEA

Il Veda propriamente detto. — I primi documenti letterari dell’india sono dei testi religiosi che, dapprima, e per lungo tempo, vennero trasmessi per via puramente orale, poi furono codificati per iscritto, pur continuando a essere tramandati oralmente di generazione in generazione dai recitatori professionali. Non se ne conosce la data e s’ignorano gli autori. Ma considerando che questi documenti sono opera di gruppi “ari” — cioè d’origine indoeuropea — che invasero l’india nord-occidentale probabilmente verso il 2000 a. C., si deve ritenere che i più antichi testi vedici risalgano a quest’epoca, per quanto la data di redazione possa essere sensibilmente più bassa. D’altra parte questa letteratura si è venuta formando attraverso un lungo periodo di tempo, essendo gli ultimi esemplari autenticamente vedici databili al VI o V secolo a. C., e forse anche più recenti.

La lingua dei documenti più antichi è un sanscrito arcaico (detto “sanscrito vedico”), che somiglia all’iranico delle parti antiche dell’Avesta (quelle chiamate gāthā) e che sotto vari aspetti non si è molto allontanato dall’indoeuropeo, sua lingua madre. La sua morfologia è estremamente ricca, liberissima la sintassi, e il vocabolario brulica di parole sconosciute e di altre conosciute ma usate in accezioni insolite. Ciò è dovuto al fatto che la lingua è soggetta a tutto un sistema di riferimenti motivati da rappresentazioni mitiche e rituali; essa ha il compito di esprimere le correlazioni tra i fenomeni del culto o dell’organismo umano e i fenomeni “atmosferici” e celesti; e il culto vedico è concepito come imitazione delle grandi manifestazioni naturali, che a loro volta sono conseguenze d’un sacrificio celeste primordiale. Queste interferenze hanno avuto effetti diretti sull’uso della lingua; esse creano un simbolismo che, unito ai veli ed ai misteri di cui amano generalmente ammantarsi gli “autori” del Veda, contribuisce a rendere ancora più fitta l’oscurità di questi testi.

Man mano che si scende nel tempo, che si passa dalla poesia alla prosa, la lingua si restringe, lo stile si semplifica. Pur conservando il loro carattere esoterico, i Brāhmana hanno una sintassi rigorosa, un vocabolario ben precisato, e all’ultimo stadio del vedismo, nelle Upaniṣad, il sanscrito raggiunge a poco a poco il livello del cosiddetto “sanscrito classico”.

Nello stadio più alto, i Samhitā, o “Raccolte”, costituiscono l’essenziale dell’opera che dapprima fu chiamata i “Tre Veda” (la parola significa “sapere, conoscenza [sacra]”) o la “Triplice Scienza”, poi, per l’ammissione secondaria di un quarto gruppo, i “Quattro Veda”.

Queste raccolte consistono di elementi in buona parte compositi.

II primo dei Veda, che è anche il più antico e il più importante, il ṚgVeda, o “Veda delle strofe”, è una serie di inni, circa un migliaio, dedicati alle divinità e ordinati piuttosto metodicamente: la metrica ha una certa somiglianza con quella di alcuni tipi di versi della poesia greca antica. In questo Veda figuravano anche poesie di carattere semiprofano, brani dialogati, inni cosmogonici, ecc.; ma la maggior parte era dedicata alle grandi divinità che o presiedevano al culto, come Agni il Fuoco e Soma il Liquore oblatorio, o ne proteggevano e garantivano le manifestazioni, come Indra il dio guerriero, Varuṇa il detentore del “potere temporale”, gli Asvini o Dioscuri indiani, e molte altre. La composizione di questi inni è soggetta a regole precise. Vi è una data maniera di comporre il panegirico, di richiamare (senza descriverli) i fatti mitici; vi è un modo di introdurre allusioni al sacrificio, e infine i poeti sanno abilmente inserire, spesso velatamente, un lungo elogio del loro protettore e invocare per lui e per sè favori e benefici. Da uno sguardo complessivo queste poesie appaiono piuttosto monotone, soprattutto per il fatto che la fraseologia è spesso identica da una all’altra, almeno in seno alle serie riferentisi a una medesima divinità. Ciò che una volta si chiamava l’enoteismo, vale a dire la tendenza a cristallizzare intorno alla divinità lodata gli attributi e i caratteri degli altri dei, contribuì a unificare il formulario. Pur tuttavia la lingua si mantiene gustosa, piena di vigore, ricca di risonanze e di valori secondari; l’apparato metaforico è estesissimo e costituisce ciò che si suol chiamare il “galimatias” del Veda. Alcune poesie, d’ispirazione elevata, raggiungono d’un tratto i temi maggiori della speculazione indiana, la ricerca dell’Uno attraverso la diversità delle cose. Gli autori del ṚgVeda sono una miriade di nomi che non hanno per noi alcun significato e che passano nella tradizione per altrettanti rishi, cioè individui ispirati che avrebbero “visto” gl’inni per tramite d’una rivelazione diretta.

Il secondo Veda è lo YajurVeda o “Veda delle formule sacrificali”. È diviso in più recensioni; alcune non contengono che formule in prosa o in versi applicate alle varie esigenze rituali; altre recensioni, che passano sotto il nome di YajurVeda Nero (per distinguerlo dallo YajurVeda bianco), contengono inoltre gli elementi d’un commentario destinato a spiegare le formule o, in senso più generale, la ragione dei gesti e delle pratiche del culto. Queste opere sono le prime testimonianze di quella prosa continua che è chiamata Brāhmaṇa, che significa : “riflessioni sul brahma (= la formula e la forza mitica che ne promana)”.

Il terzo Veda, o SāmaVeda, “Veda delle melodie”, non è altro, letterariamente parlando, che un estratto del ṚgVeda, in cui le strofe sono diversamente ordinate e talvolta accompagnate da varianti. L’interesse della raccolta risiede nella notazione musicale, avendo essa servito come manuale per cantori. Questa notazione, insieme con le modificazioni foniche apportate al testo parlato per adattarlo al canto, sono importanti per la storia della musica: è la più antica musica liturgica che si conosca.

Infine l’ultimo Veda, che si è fatto strada lentamente e faticosamente per allinearsi con gli altri, è l’AtharvaVeda. Trattasi di una scelta disparata di poesie, quali prese dal ṚgVeda, quali e più spesso originali, di tipo molto diverso l’ima dall’altra: da una parte preghiere magiche, dall’altra formule piuttosto sconnesse riguardanti cerimonie private, sposalizi, funerali; infine brani speculativi su entità superiori prese a sostegno d’un simbolismo occulto. La lingua è spesso più moderna di quella del ṚgVeda; lo stile è in parte meno dotto, se non addirittura (come si è preteso) popolare. La religione degli Atharvan apparteneva ad ambienti ben distinti da quelli del ṚgVeda: ambienti di maghi, di sciamani e di “stranieri” di diverse specie. Molte preghiere magiche e molti brani cosmogonici sono bellissimi.

I Brāhmaṇa e le Upaniṣad. — In secondo piano la letteratura vedica è costituita dai Brāhmaṇa, commentari in prosa del tipo di quelli che abbiamo visti abbozzati intorno alle formule dello Yajur, ma che ora formano oggetto di manuali speciali e assumono maggiore ampiezza. Alcuni sono collegati alle diverse Samhitā e ripartiti in scuole, le quali non sono altro che “recensioni”. I Brāhmaṇa commentano le formule, analizzano alcune parole (ponendo le basi d’una pseudo-etimologia a tendenza simbolistica), interpretano i miti del Veda fissando i legami tra quei vecchi racconti e le attuali pratiche del sacrificio. Sono infine delle esegesi del sacrificio, attorno al quale si va ormai concentrando l’interesse della religione. Il più importante dei Brāhmaṇa è il Satapatha (-Brāhmaṇa) o “dei Cento cammini”, la cui lingua è d’un rigore meraviglioso se si considera che il pensiero si muove su uno schema di classificazione paralogica. Molte leggende, come quella del Diluvio, ci sono conservate dal Satapatha.

I Brāhmaṇa comprendevano una parte esoterica, gli Āraṇyaka o “Libri forestali”, che veniva recitata fuori dei centri urbani. Gli Āraṇyaka abbozzano una simbolica dei valori rituali, che trova poi sviluppo nelle Upaniṣad o “Trattati relativi alle equivalenze (tra microcosmo e macrocosmo)” (è questo il significato originario della parola Upaniṣad). Ma questi trattati sono destinati a superare ben presto le esigenze liturgiche e anche religiose. Al termine della loro ricerca di “equivalenze”, raggiungono l’identificazione suprema, la “verità delle verità”, l’equazione tra l’anima individuale ( ātman ) e l’antico principio mistico-rituale del brahma, promosso al rango di anima universale. «Tu sei questo», cioè:

“ Tu, anima individuale, sei identica a Questo, anima universale” : così suona la formula che riassume tale insegnamento. Esso è inoltre illustrato da molte parabole e da molti richiami di antichi temi sacrificali, di episodi presi dai dibattiti e dalle controversie che sempre più si accendevano tra sofisti e teologi e a cui partecipavano anche principi e donne. L’insieme è poco coerente, ma contiene tratti d’incomparabile grandezza che hanno sempre affascinato l’Occidente da quando Schopenhauer ne prese conoscenza attraverso la prima traduzione fatta in Europa un secolo e mezzo fa: la traduzione latina di Anquetil Duperron, da una versione persiana del XVII secolo.

Le Upaniṣad ci conducono sulla via dell’induismo : esse schiudono la porta alle speculazioni dell’india classica così da riflettere e perfezionare i valori del passato. Torniamo ora al centro stesso del vedismo con altri testi che non hanno alcun valore propriamente letterario, ma che sono di primaria importanza sul piano della pratica religiosa e della formazione delle tecniche nell’india

antica.

I Sutra e i testi ausiliari. — Innanzi tutto i Sùtra o “Aforismi”, che rappresentano il kalpa, cioè l’insegnamento rituale. Sono descrizioni straordinariamente minuziose delle cerimonie del culto : sacrifici giornalieri, quindicinali, quadrimestrali; sacrifici occasionali (come la Consacrazione reale, il Sacrificio del cavallo), riti votivi, espiazioni, ecc. Queste pratiche richiedevano parecchi officianti, ai quali si aggiungeva il “maestro del sacrificio”, cioè il laico a beneficio del quale l’opera veniva eseguita e che ne assumeva le spese. Le descrizioni sono ripartite secondo le categorie di officianti: vi sono manuali dell’“invocatore-mescitore” (le cui formule sono attinte dal ṚgVeda), altri per i “cantori” (formule rilevate dal SāmaVeda), e soprattutto i manuali dell’adhvaryu, cioè dell’officiante esecutore che compie la maggior parte dei gesti e recita a bassa voce le formule tratte dallo Yajur. Ognuno di questi manuali appartiene a una scuola diversa, il che significa che presenta varianti più o meno profonde rispetto al testo base: e la ricostruzione di questo, che sarebbe veramente necessaria, risulta pertanto un compito impossibile.

I riti così descritti (è la più importante descrizione del genere che offra l’antichità) attestano una religione fortemente evoluta in rapporto a quella che possiamo indovinare attraverso gl’inni: molto più complessa, con l’alternarsi di oblazioni prettamente vegetali, di libagioni di soma, di sacrifici cruenti. Tutto questo insieme rappresenta il culto solenne o «rivelato»: quello insomma che ha il suo prototipo nel ṚgVeda. Ma esisteva, a latore, un cerimoniale privato, di forma più semplice, che non aveva bisogno d’un clero professionale. La descrizione dei riti privati (compresi i Veda o “sacramenti” che segnano le tappe principali della vita del “rinato”) è oggetto degli “Aforismi domestici”, che sono pure divisi in numerose scuole. Vi sono infine degli «Aforismi sulla Legge” (dharma) che incorporano accanto ai dati religiosi i rudimenti d’un diritto civile e penale. Tutti questi testi sono redatti in una prosa più o meno concisa, fatta per essere imparata a memoria e quasi incomprensibile senza l’aiuto d’un commentario.

Abbiamo infine i testi ausiliari del Veda, di diversi tipi. I più notevoli sono i trattati di fonetica (i più antichi che esistano fra tutte le letterature), che hanno lo scopo di dare la pronunzia corretta delle forme e delle strofe : primi saggi d’una grammatica che si svilupperà in seguito (pag. 43) quando nasceranno le discipline vediche. Vi sono “aforismi” per la costruzione degli altari e dei focolari (con spunti di geometria); altri per fissare il calendario (con nozioni di astronomia); testi di metrica, di etimologia, infine tutta una letteratura di commentari che si è protratta molto al di là dell’epoca vedica. Il più quotato commentario del ṚgVeda, quello di Sāyana, appartiene al XIV secolo, ma si basa su una tradizione risalente ad epoca assai più lontana.

Nato in seno a dei clan di modesta importanza, costretti a lottare duramente per sopravvivere tra una popolazione ostile e in mezzo a gruppi rivali, il vedismo si estese a poco a poco verso l’Est, poi verso il Sud. Nell’epoca storica (che, in realtà, comincia tardi nell’india), si ha testimonianza di scuole vediche disseminate dappertutto nell’immenso dominio indiano. Benché la letteratura “creatrice” del Veda sia cessata piuttosto presto, come se si fosse esaurita, le forme religiose si sono tuttavia infiltrate nel culto classico, e alcune hanno cambiato totalmente aspetto. Considerevole è stata l’influenza del Veda sulle posteriori produzioni letterarie dell’india, e anche oggi i testi vengono studiati, imparati a memoria, recitati con un’esattezza incomparabile; alcune cerimonie sono state ricostruite in tutte le loro parti.

L’Epopea. II Mahābhārata. — Il VI secolo a. C. è un’epoca di gran fervore. Mentre le discipline vediche si perdono nelle dispute scolastiche, la predicazione del Buddha e quella del Jina nell’india orientale si aprono la strada nel mondo dei sofisti che gravitano attorno ai prìncipi e nei cenacoli dei protettori laici. D’altra parte l’induismo, rimasto per lungo tempo anonimo, e per così dire indifferenziato, comincia a organizzarsi in una vasta tradizione scritta. In questa epoca sono da collocare gl’inizi della letteratura induista, ben inteso che i grandi testi ricevettero la loro forma definitiva in data assai più recente, grosso modo al principio dell’era cristiana. Abbiamo da una parte le due epopee, dall’altra i trattati più antichi della Smṛti o Tradizione “memoriale” (opposta alla Tradizione «rivelata» del Veda); nasce al tempo stesso la letteratura purānica. Ma niente di tutto questo forma il canone dell’induismo, che non è mai stato codificato; e nella maggior parte non sono neppure testi essenzialmente religiosi. Sono, sotto forme diversissime, i rappresentanti del dharma indù, di quella Legge o Norma, come si vuol chiamare, che dirige il comportamento degli esseri tanto sul piano religioso quanto sul piano morale, sociale, giuridico ed anche igienico.

Non è mai esistita, come si credeva una volta, un’era epica. A margine di altre attività, in alcuni circoli privilegiati di aedi o di bardi che, pur vivendo in romitaggi, si tenevano a contatto con ambienti kṣatriya (“nobili”), si svolse una lenta preparazione di temi epici (in parte iniziati fin dal Veda) che dettero vita a due grandi complessi letterari.

Delle due epopee, la più antica per ispirazione e stile — la lingua base è un sanscrito relativamente arcaico — è il Mahābhārata o «(Racconto della) grande (guerra) dei Bhārata». È un’opera anonima (l’attribuzione fatta a Vyāsa è fittizia) della quale esistono parecchie recensioni che, malgrado le loro divergenze, bene o malo si son potute ricondurre a una fonte unica. Il fatto principale è la rivalità fra due famiglie principesche apparentate: i cento Kaurava con a capo il rude Duryodhana, e i cinque fratelli Pāṇḍava, loro cugini, che hanno sposato in comune la figlia del re Drupada, Draupadī, soprannominata Kṛṣṇa “la Nera”. La rivalità è cominciata molto prima di questo matrimonio. I Kaurava erano riusciti a persuadere il vecchio re Dhritarāshtra a condannare i loro cugini all’esilio. Durante questo primo soggiorno nella foresta, i cinque Pāṇḍava, tra varie avventure, conquistano Draupadī avendo uno di essi, l’eroe Arjuna, superato vittoriosamento la prova di tendere un arco soprannaturale. Duryodhana decide allora di finirla.

Dapprima ricorre all’astuzia; sfida al giuoco il più giovane dei suoi avversari e, vinta una partita dopo l’altra, lo spoglia d’ogni suo avere oltre a ridurre Draupadī in schiavitù. I Pāṇḍava riprendono la via dell’esilio. Dopo dodici anni, trascorsi anche questi tra molte avventure, ritornano e rivendicano il regno.

La guerra è inevitabile. Le due parti si preparano a scendere in campo alleandosi con tribù venute da tutta l’india e da numerose regioni limitrofe. Per diciotto giorni di seguito la battaglia infuria con alterna vicenda nel “Campo dei Kuru”, la terra santa del brahmanismo (regione della moderna Delhi). I morti si ammucchiano sulla terra intrisa di sangue. Alle mischie delle schiere succedono i combattimenti singolari degli eroi, che scompaiono uno dopo l’altro, ultimo fra tutti Duryodhana. Ma i cinque Pāṇḍava sono salvi; essi sono scampati anche a un’ultima strage fatta di sorpresa da un sopravvissuto dei Kaurava mentre i loro uomini, dopo il combattimento, credendo il terreno sgombro di nemici, si erano abbandonati a un sonno ristoratore. Qualche tempo dopo, scompaiono a loro volta di morte soprannaturale anche i cinque fratelli, con Draupadī , mentre s’incamminano verso l’Himālaya.

Questo poema s’inscrive nella serie delle epopee a fine tragico, addolcito però dalla concezione indiana del destino. È estremamente ricco di digressioni: discorsi morali, giuridici, filosofici, favole e parabole, episodi vari senz’alcun legame col fatto principale, come il lungo racconto autonomo di Nala e Damayanti, gli amanti separati dalla passione del giuoco che travolge Nala; o quello di Savitrī, la sposa fedele che strappa la salma del marito dagli artigli del dio Yama.

I caratteri sono delineati vigorosamente. Il più interessante è quello dell’eroe Kṛṣṇa , cugino e alleato dei Pāṇḍava, che contribuisce alla loro vittoria con mezzi talvolta assai sleali. Egli è lo stesso capo di clan che si rivelerà come un dio supremo,alla fine dell’insegnamento che, il giorno precedente la grande battaglia, impartisce ad Arjuna, incoraggiandolo a combattere e munendolo delle più alte rivelazioni. Questo insegnamento, pieno di formule grandiose, costituisce la Bhagavadgītā o “Canto del Beato”, uno dei vertici dell’etica e del pensiero popolare dell’induismo. Ma la questione se la Gītā sia stata dapprima un testo indipendente, o se facesse parte dell’epopea fin dalle origini, interessa solo gli eruditi.

I centomila versetti (generalmente distici di trentadue sillabe) di cui si compone il Mahābhārata sono seguiti da un ampio supplemento chiamato il Harivamsa o la “Genealogia di Hari (= Viṣṇu)”: raccolta di miti e di leggende più o meno collegati al vishnuismo.

II Rāmāyana . — L’altra epopea, il Rāmāyana , o la “Gesta di Rāma”, è molto più breve (ventiquattromila distici) e più unitaria; lo stile, meno arcaico, si avvia verso lo stile della poesia di corte destinata a svilupparsi nelle ere successive. Ma il racconto stesso risale, come il precedente, alle epoche mitiche, in un tempo ancora più arretrato rispetto alla guerra dei Bhārata. L’opera è attribuita a Vālmīki, che dev’essersi assunto il compito di riunire gli elementi sparsi della tradizione orale e di combinarli in una composizione semierudita.

Il racconto iniziale, ricco di episodi, riguarda l’infanzia e la giovinezza dell’eroe Rāma , il figlio del re di Ayodhyā (mod. Udh), e il suo matrimonio con Sītā, figlia del re dei Videha, della quale si è guadagnato la mano riuscendo vittorioso nella prova di tendere (come Arjuna) un arco meraviglioso. Ma quando Rāma dovrebbe normalmente succedere a suo padre, gli intrighi delle regine finiscono col soppiantarlo, ed egli è costretto a prendere la via dell’esilio col fratello Lakshmana e con Sītā . Dopo vari episodi nel corso dei quali Rāma combatte contro i briganti-demoni, i Rākshasa, il capo di questi, Rāvana, re di un’isola lontana (Lanka), decide di vendicarsi. Approfittando di un’assenza dei due fratelli, rapisce Sītā , la trascina nel suo carro volante e la rinchiude nel suo palazzo.

Rāma fa allora alleanza con le scimmie capeggiate dal popolare Hanumant. Questi, con un salto al di sopra dell’oceano, riesce a vedere Sītā, la incoraggia e la conforta. Rāma attacca allora la meravigliosa capitale di Rāvana, dopo aver fatto passare le sue schiere su un ponte d’alberi e di rocce. Alla fine di una sortita generale, l’esercito dei demoni è messo in fuga e Rāma, ucciso Rāvana, libera Sītā e rientra trionfalmente ad Ayodhyā. Qui succedono scene di dolore, perchè, temendo che Sītā non sia rimasta pura durante la sua detenzione presso il demonio, Rāma la ripudia. Ella vuole gettarsi allora nelle fiamme, ma il dio del Fuoco la risparmia e attesta la sua innocenza.

L’ultimo Libro dà un’altra versione: per ordine di Rāma la regina viene condotta nella foresta e vi è abbandonata. Ella mette al mondo due gemelli presso l’eremita che l’ha raccolta. In seguito Rāma incontra i propri figli e, preso dal rimorso, vuol ricondurre Sītā con sè, ma ella invoca la Terra che si apre per darle asilo. I ricordi storici (allusioni a un’antica colonizzazione aria nell’india meridionale) sono qui più verosimili che nell’altra epopea. Ma lo sfondo è ugualmente leggendario e senza dubbio puramente mitico. I caratteri sono piuttosto convenzionali: si distacca la pura figura di Sītā , e quella di Rāma , l’eroe devoto alla Legge, anche quando questa legge lo conduce ad azioni disumane. La divinizzazione di Rāma appartiene a qualche episodio tardivo, forse

interpolato.

Considerevole fu l’influenza dell’una e dell’altra epopea sulle letterature dell’india, tanto in sanscrito quanto in altre lingue. I vecchi racconti furono mille volte rimaneggiati, riassunti, trasformati in poemi lirici o drammatici, ecc. In particolare per il Rāmāyana si deve tener conto di tutto un folklore indipendente di Vālmīki, che si diffuse specialmente in Indocina e in Indonesia. La versione sanscrita (pure divisa in recensioni) non è che una delle branche, razionalizzate e stilizzate, di questo folklore.

I Purāna e i Tantra. — L’epopea continua in un certo senso nella letteratura illimitata dei Purāna: letteratura senza date, che abbraccia tutto il primo millennio a. C. Oltre ai testi maggiori, «i Grandi Purāna», furono prodotti dei “Sub-Purāna”, degli inni separati, “glorificazioni (di luoghi santi)” e altri trattati di diversa ispirazione. La parola Purāna significa “antico”, e fin nei testi vedici si trova già menzione di questo genere letterario; ma, come sempre, la data di redazione è molto bassa e la lingua è generalmente un sanscrito popolare e semipopolare, non esente da anomalie, pur senza gli arcaismi che conservava ancora l’epopea. I Purāna sono veri e propri testi religiosi, perchè dedicati alle divinità, dalle quali si presumevano «promulgati» e perchè hanno soprattutto lo scopo di descrivere le leggende sacre, ossia pratiche del culto, pellegrinaggi, ecc. Alcuni possono essere stati compilati per le esigenze di una setta particolare. Parecchi sono (o furono) di dimensioni considerevoli. Ma lo sfondo è piuttosto storico o pseudostorico: si tratta, insomma, della storia del mondo, raccontata in maniera discontinua, dai tempi immemorabili, attraverso i periodi ciclici compiuti, fino alle dinastie delle ere moderne (descritte in parte sotto forma di profezie). Oltre agl’insegnamenti religiosi, vi sono infine dei capitoli totalmente profani, che trattano di musica, poesia, medicina, grammatica, ecc. Sono, in sostanza, vere e proprie enciclopedie. I più noti sono il “Purāna di Viṣṇu”, che appartiene allo strato relativamente antico e condensa una somma di viṣṇuismo mitologico, e il “Purāna degli adepti di Beato” (Bhāgavata-Purāna), cioè di Kṛṣṇa , che rientra invece nella produzione recente (IX sec. ?) e riveste maggiore interesse per l’elevatezza del pensiero e i pregi dello stile.

Altre raccolte analoghe sono state raggruppate sotto il nome di Tantra, o “Libri”. Si distinguono i Tantra propriamente detti, i quali non sono altro che dei Purāna messi al servizio di quel particolare aspetto dell’induismo chiamato, dal loro nome, tantrismo; i Saṃhitā o “Raccolte” che riuniscono dati riguardanti le sètte viṣṇuite ; gli Agāma o «Tradizioni» che hanno lo stesso scopo per il śivaismo. Come i Purāna, anche questi trattati contengono cosmogonia, imnologia e rituale; vi è molto sviluppata la parte relativa alla speculazione che riveste talvolta forme fantastiche. Neppure di queste serie, come delle precedenti, si possono stabilire le date; tutto quello che sappiamo è che sino agl’inizi dell’era moderna sono stati compilati dei Tantra importanti, e che i primi possono essere stati elaborati, forse sotto l’impulso del tantrismo d’influenza buddista (pag. 51), verso il VII o l’VIII secolo.